RESPONSABILITÀ NOTAIO: le conseguenze per inesattezza dei dati anagrafici per i mutui ipotecari

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

 L’ipoteca con dati errati tali da indurre incertezza sull’identità della persona, di cui ad un contratto di mutuo, non può essere oggetto di iscrizione suppletiva o in rettifica, nell’ipotesi di vendita del bene difettosamente ipotecato, essendo necessaria la nascita di una distinta iscrizione ipotecaria, munita di nuovo grado che costituisce una nuova iscrizione.

Questi è il principio enunciato dalla Corte d’Appello di Napoli, Pres. Giordano- Rel. Mondo, con la sentenza del 12.11.2014, n. 4503.

Nella fattispecie in disamina, gli acquirenti di un immobile concesso a garanzia di un mutuo, su cui era stato commesso un errore di iscrizione della ipoteca da parte del notaio, relativo ai dati anagrafici del soggetto titolare del bene immobile, proponevano appello alla sentenza di primo grado con cui il giudice di prime cure:

– accoglieva l’azione revocatoria proposta dal notaio nei confronti del terzo datore di ipoteca e degli appellanti, dichiarando inefficaci gli atti di compravendita in contestazione atteso che il terzo, approfittando della inesattezza contenuta nel contratto di mutuo, avesse compiuto atto di alienazione dell’immobile, a favore di suoi parenti conviventi, con l’intento di porsi in una situazione di totale incapienza;

– accoglieva la domanda proposta dal notaio nei confronti del terzo datore di ipoteca e dei coniugi mutuatari, disponendo la rettifica dell’iscrizione ipotecaria da attuarsi nelle forme della iscrizione suppletiva o della iscrizione in rettifica con indicazione delle corrette generalità del terzo datore di ipoteca;

– accoglieva, per quanto di ragione, la domanda proposta dalla Banca, condannando il convenuto notaio al pagamento della somma liquidata equitativamente di € 10.000,00 a titolo di risarcimento del danno;

– accoglieva, altresì, la domanda proposta dal convenuto notaio nei confronti dell’assicuratrice chiamata in causa, condannandola a manlevare il chiamante dal pagamento della somma di cui sopra, dedotto l’importo della franchigia ridotta, pari ad € 5,000,00, nonché al pagamento delle spese processuali dovute dall’assicurato notaio;

– condannava il convenuto alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla Banca attrice; condannava i chiamati in causa, ad eccezione dell’assicurazione, alla rifusione del spese processuali sostenute dal convenuto; dichiarando interamente compensate le spese processuali nel rapporto fra il convenuto e la assicuratrice chiamata in causa.

La cessionaria della Banca si costituiva, nella detta qualità, resistendo all’appello principale e spiegando appello incidentale con il quale, impugnando il capo della sentenza che ha quantificato il danno subito dalla banca, chiedeva di accertare e dichiarare che, per effetto dell’errore in cui era incorso il notaio, l’ipoteca iscritta in danno del terzo datore di ipoteca fosse priva di alcun effetto giuridico e che, pertanto, la banca, a seguito dell’errore, ha diritto di ottenere il pagamento, da parte del convenuto notaio, dell’importo di euro 51.645,69, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Si costituivano, altresì, le controparti appellate che proponevano, a loro volta, appello incidentale ad eccezione della compagnia di assicurazione.

Nel merito, il Tribunale aveva riconosciuto la legittimazione del notaio a surrogarsi nella posizione di credito vantata dalla Banca verso i mutuatari ed il terzo datore di ipoteca per scongiurare il pregiudizio comunque inferto al diritto della stessa, ancora in corso di giudiziale accertamento. Ciò in virtù del consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria, non è necessario che il creditore sia titolare di un credito liquido ed esigibile, essendo sufficiente una semplice aspettativa che non si rilevi prima facie infondata e che possa valutarsi come probabile, anche se non definitivamente accertata.

La Corte di Appello, nel riformare la sentenza di primo grado in senso favorevole all’istituto di credito e contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, ha osservato che quest’ultimo ha errato nell’attribuire effetti reali alla azione revocatoria, poiché il ripristino della garanzia ipotecaria invocata in virtù dell’iscrizione suppletiva o in rettifica non è assistito dalla declaratoria di inefficacia dell’atto di alienazione del bene.

Invero, l’effetto della revocatoria non è di travolgere l’atto di alienazione, ma di determinarne l’inefficacia nei confronti del creditore, mentre l’iscrizione suppletiva comporta come conseguenza la nascita di distinta iscrizione ipotecaria munita di nuovo grado.

Dunque, proprio in ragione della natura dell’azione revocatoria, la possibilità di sottoporre ad esecuzione i beni oggetto di alienazione sussiste solo in capo al creditore che ha ottenuto la declaratoria di inefficacia dell’atto ovverosia, nel caso di specie, al notaio e non già alla banca mutuante che, in conseguenza dell’errore nella iscrizione dell’ipoteca, non vanta alcun titolo nei confronti dei mutuatari e del terzo datore di ipoteca e non è tutelata dall’ordine di rettifica ineseguibile su un bene che non è più nel patrimonio dell’alienante.

Ne consegue che l’accoglimento della azione revocatoria non esclude il verificarsi del danno derivante dall’omissione o inesattezza dei dati anagrafici risultanti dal titolo iscritto da ipoteca, posto che l’errore commesso dal notaio ha comportato la definitiva perdita dell’ipoteca da parte della banca.

La Corte adita ha, quindi, accolto l’appello incidentale proposto dalla Banca, per il tramite della società cessionaria, ed in riforma della sentenza impugnata, ha riconosciuto alla stessa la somma di euro 51.645,69, mentre ha rigettato l’appello principale proposto dagli eredi del terzo datore di ipoteca e quelli incidentali delle controparti.

REVOCATORIA ORDINARIA: l’adeguatezza del prezzo è indice di correttezza dell’operazione di leasing

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

 Ai fini della revocatoria ordinaria ex art. 2901 cc di un contratto di compravendita immobiliare, non sussiste la scientia damni in capo agli acquirenti, in presenza di due elementi: l’adeguatezza del prezzo di vendita del bene rispetto a quello di mercato e la presenza di un terzo acquirente competente in materia immobiliare atteso che gli stessi costituiscono una rassicurazione sulla piena correttezza della complessiva operazione di vendita.

Questo il principio espresso dalla Corte dei Conti, sez. Terza, Pres. F. Di Grazia – Rel. E. Musumeci, con la sentenza pubblicata il 15 febbraio 2016, n. 32, resa in un giudizio di appello proposto da una SOCIETÀ LEASING avverso la sentenza resa in un giudizio di revocatoria ordinaria.

In particolare, una SOCIETÀ di LEASING ed una società avevano stipulato un contratto di compravendita, nell’ambito di un contratto di leasing, che veniva dichiarato inefficace, a seguito di una revocatoria ordinaria proposta dalla Procura regionale, dalla Corte dei Conti per la Campania.

Il Sostituto Procuratore Generale, nel giudizio di primo grado, aveva sostenuto l’esistenza della scientia damni in capo all’acquirente (SOCIETÀ LEASING) esclusivamente da tre articoli di stampa, da un servizio televisivo risalente a quasi due anni prima che venisse stipulato il preliminare di vendita e dalla notorietà presunta che su internet avrebbe ottenuto la vicenda del finanziamento.

La Corte dei Conti, in grado di appello, dava una diversa valutazione ai fatti di causa, rilevando che “certamente non possa reputarsi dimostrata la scientia damni in capo ai terzi contraenti”, sia perché il prezzo di vendita del bene risultava adeguato a quello di mercato e, da ciò, non si poteva sospettare che quella vendita potesse rivelarsi idonea a pregiudicare le ragioni creditorie, sia perché la presenza di un terzo acquirente, come una SOCIETÀ LEASING, competente in materia immobiliare, costituiva un’ulteriore rassicurazione sulla correttezza della complessiva operazione.

Inoltre, tale consapevolezza non poteva reputarsi insita nella qualità di operatore professionale rivestita da SOCIETÀ LEASING, i cui accertamenti patrimoniali, prodromici alla complessiva operazione immobiliare, è ragionevole che abbiano riguardato essenzialmente il soggetto finanziato mediante il contratto di leasing connesso alla compravendita medesima, piuttosto che la società fornitrice che era parte venditrice.

La Corte dei Conti ha, pertanto, ritenuto che le circostanze in virtù delle quali la Procura regionale aveva fatto derivare la scientia damni in capo al terzo acquirente SOCIETÀ LEASING non potevano costituire elementi gravi, precisi e concordanti tali da dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo della consapevolezza del pregiudizio che l’atto era in grado di produrre al creditore.

Per tale motivo, la Corte dei Conti ha concluso accogliendo l’appello proposto dalla SOCIETÀ LEASING dichiarando non revocabile il contratto di compravendita immobiliare, anche con condanna della procura al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio.

REVOCATORIA FALLIMENTARE: non costituisce mezzo anormale di pagamento l’escussione di polizza costituita in pegno

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Non rientra tra le ipotesi di mezzo anormale di pagamento, di cui all’art. 67 comma 1, n. 2 lf, l’escussione anticipata della polizza costituita in pegno a favore dell’Istituto di Credito, non potendo sostenersi che l’escussione abbia realizzato una modalità anomala di estinzione del debito in conto corrente, rappresentando, invece, un modo di estinzione del debito, sempre liquido ed esigibile, rientrante nella normalità dei rapporti tra le parti ed in linea con la causa tipica del contratto di pegno.

Questo il principio affermato dal Tribunale di Nola, Giudice dott.ssa Giuseppa D’Inverno nella sentenza n. 497/2016 pubblicata il 17.02.2016, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ex art. 67 lf.

In particolare la curatela ha proposto azione di inefficacia ex art. 67 comma 1, n. 2 lf, nei confronti di un Istituto di Credito, relativamente all’operazione di riscatto totale di una polizza vita, esercitato dal creditore pignoratizio Banca, e di successivo utilizzo del controvalore liquidato per la riduzione della debitoria presente sul c/c ordinario accesso dalla fallita, sul presupposto della anomalia di tale pagamento.

Si è costituito l’Istituto sollevando una pluralità di eccezioni ed, in particolare, l’infondatezza della domanda, considerata l’assenza di qualsivoglia anomalia nel pagamento,  trattandosi della  escussione di una garanzia legittimamente concessa.

Il Tribunale di Nola, nel motivare l’infondatezza della domanda, rileva come, nel caso di specie,  la possibilità di riscatto anticipato fosse prevista dall’atto di pegno, ed al contempo come non possa sostenersi che l’escussione abbia realizzato una modalità anomala di estinzione del debito in conto corrente, rappresentando invece – come affermato dalla convenuta- un modo di estinzione del debito, sempre liquido ed esigibile, rientrante nella normalità dei rapporti tra le parti ed in linea con la causa tipica del contratto di pegno.

 Sul punto, viene richiamata anche la giurisprudenza di legittimità e di merito, conforme all’adottato orientamento, allorquando afferma che “In tema di revocatoria fallimentare, la rimessa in conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno ormai consolidatosi in favore della stessa banca è revocabile, ai sensi dell’art. 67 (comma 2)della legge fall., non assumendo alcun rilievo la circostanza che il ricavato della vendita sia destinato a soddisfare un credito privilegiato, in quanto l'”eventus damni” deve considerarsi “in re ipsa“, consistendo nella lesione della “par condicio creditorum” ricollegabile all’uscita del bene dalla massa in forza dell’atto dispositivo, e non potendosi escludere “a priori” il pregiudizio delle ragioni di altri creditori privilegiati, insinuatisi in seguito al passivo” (così Cass. civ., sez. I, 26 febbraio 2010, n. 4785; Trib. Napoli, 11.11.2011, in www.iusletter.com ) .

Sulla base di tale corretto iter motivazionale, il Tribunale di Nola ha rigettato la domanda proposta dalla curatela con condanna al pagamento delle spese di lite.

FIDEIUSSIONE OMNIBUS: onere della prova dell’adempimento a carico del debitore

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

Nei contratti di fideiussione omnibus o c.d. “a prima richiesta” il debitore, per liberarsi dell’obbligazione, deve provare o l’adempimento della stessa ovvero, specificatamente, che gli interessi passivi non sono stati correttamente conteggiati; mentre, il garante che vuole sottrarsi al pagamento deve dimostrare la nullità del contratto garantito o l’illiceità della sua causa mediante una prova pronta e liquida.  

Questi sono i principi sanciti dal Tribunale di S.M.C.V., Giudice Concetta Serino, con la sentenza del 04 febbraio 2016, n. 519.

Nel caso di specie, debitore e fideiussore proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca in relazione al credito vantato nei confronti della società debitrice ed emesso anche nei confronti del fideiussore.

A fondamento delle proprie ragioni, gli attori lamentavano l’assenza del titolo fatto valere e dei presupposti, da parte dell’opposta, ad agire in sede monitoria, l’invalidità e l’inefficacia della fideiussione e l’adempimento parziale del debito. Pertanto, chiedevano l’accertamento e la dichiarazione di nullità degli atti posti a base dell’avverso decreto, del provvedimento monitorio per effetto dei pagamenti effettuati dagli opponenti, nonché della fideiussione ex adverso invocata per mancanza di data certa, con la conseguente nullità dell’impugnato decreto e revoca dello stesso nei confronti dei soggetti pretesi garanti.

Il Tribunale, rigettando la pretesa opposizione, ha rilevato che il contratto di fideiussione stipulato dagli opponenti fosse da ricondurre alla fattispecie del contratto autonomo di garanzia o c.d. “a prima richiesta” e non già a quella della fideiussione codicistica, atteso che nell’art. 7 del contratto in oggetto era stato stabilito che il fideiussore si impegnava a pagare a semplice richiesta quanto dovuto per capitale e interessi.

Orbene, mentre il fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale obbligandosi direttamente ad adempiere, il garante si obbliga piuttosto a tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del debitore pertanto, caratteristica della fattispecie in oggetto è l’assenza, quindi, dell’elemento dell’accessorietà della garanzia rispetto all’obbligazione principale.

Il contratto autonomo di garanzia è, in tale ottica, espressione dell’autonomia negoziale ex art. 1322 cod. civ.. Ne consegue, pertanto, che il garante non può opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, salva la facoltà di eccepire la mancanza di causa ovvero l’avvenuto soddisfacimento del creditore (cfr. Cass. Civ. 2464/2004 cit.).

Inoltre, il creditore che intenda escutere una garanzia autonoma con clausola di pagamento “a prima richiesta” non ha l’onere di provare l’inadempimento del debitore: è, invece, a carico del garante che intenda sottrarsi al pagamento l’onere di dimostrare – attraverso una prova pronta e liquida – la nullità del contratto garantito o l’illiceità della sua causa.

Nel caso di specie, quindi, non potevano essere proposte le eccezioni oggetto del presente giudizio da parte del fideiussore, non avendo provato né dedotto che il debitore principale o lo stesso avesse adempiuto.

Dunque, il Giudice ha dedotto la palese infondatezza del motivo di opposizione, essendo stato emesso il decreto ingiuntivo a seguito del deposito delle certificazioni ai sensi dell’art. 50 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (estratto conto) e di contratto di fideiussione avente data certa, ovvero il 3.8.2005, e regolarmente sottoscritto dall’opponente fideiussore.

A fronte dell’assolvimento dell’onere della prova da parte della banca creditrice, spettava al debitore provare l’adempimento delle obbligazioni, ovvero contestare specificatamente che gli interessi passivi non fossero stati correttamente conteggiati e che alcune rimesse in favore della banca non fossero state inserite nell’estratto conto.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il Tribunale ha rigettato l’opposizione, ha dichiarato l’esecutività del decreto ingiuntivo opposto e ha condannato parte attrice al pagamento delle spese di lite.

LEASING FINANZIARIO: in caso di furto, contratto risolto e rimborso assicurativo a favore concedente

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Nell’ipotesi di furto del veicolo oggetto di un contratto di leasing finanziario, si verifica la risoluzione del contratto e si realizza, al contempo, la condizione per il rimborso assicurativo vincolato a favore del concedente, oltre che l’indennizzo a favore della società concedente ed a carico dell’utilizzatore delle rate a scadere e del prezzo di acquisto finale.

Questo il principio affermato dal Tribunale di Nola, dott. Francesco Colella, con la sentenza n. 243, depositata il 21 gennaio 2016.

Nel caso di specie una società s.r.l. aveva stipulato con una società di leasing un contratto di locazione finanziaria per l’utilizzo di un veicolo e, come previsto nel contratto di leasing, aveva stipulato una polizza assicurativa del veicolo in questione per il rischio di furto e incendio, con clausola di vincolo in favore della società concedente. La società di assicurazioni, successivamente, ripartiva il 33% delle quote assicuratrici ad altra compagnia assicurativa.

A seguito del furto del veicolo oggetto di locazione finanziaria, la società di assicurazioni, nonostante i ripetuti solleciti, non provvedeva al pagamento dell’indennizzo, per cui l’utilizzatore la conveniva in giudizio, unitamente alla società cui la stessa aveva ceduto parte delle quote, al fine di ottenere la condanna delle stesse al pagamento dell’indennizzo dovuto, oltre che di tutti i danni subiti e subendi a causa dell’inadempimento.

Si costituivano in giudizio le compagnie di assicurazione convenute, le quali contestavano le deduzioni attoree e chiedevano il rigetto della domanda, nonché l’annullamento del vincolo previsto nel contratto di polizza in favore della società di leasing, con condanna dell’utilizzatore, all’esito dell’annullamento del contratto assicurativo, alla restituzione in favore del concedente di tutti i canoni a scadere e di tutte le somme vantate a credito.

Si costituiva altresì la società di leasing, chiedendo l’accoglimento della domanda risarcitoria proposta dalla società attrice, con attribuzione al concedente dell’importo che sarebbe stato incassato in conto del maggior danno, spiegando inoltre domanda riconvenzionale, al fine di ottenere la condanna dell’utilizzatore al pagamento dell’indennizzo dovuto, in forza del contratto di leasing, commisurato rispetto alle rate a scadere ed al prezzo di acquisto.

Il Tribunale ha ritenuto che in conseguenza del furto del veicolo oggetto del contratto di leasing, fosse intervenuta la risoluzione del contratto, con connesso rimborso assicurativo vincolato a favore del concedente, oltre che indennizzo a favore della società concedente ed a carico dell’utilizzatore delle rate a scadere e del prezzo di acquisto finale.

Per tali motivi ha rigettato la richiesta di annullamento del contratto di assicurazione e del contratto di leasing, accogliendo la domanda di parte attrice di condanna delle società assicuratrici convenute e la domanda riconvenzionale della società di leasing, diretta ad ottenere l’indennizzo dovuto dalla stessa attrice.

 

 

REVOCATORIA: il curatore non può proporre la medesima azione prima per il fallimento sociale e poi per quello personale

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Nel caso di sentenza dichiarativa del fallimento di una società di persone e dei soci illimitatamente responsabili, il curatore fallimentare non può agire una volta in rappresentanza dei creditori della società e l’altra in rappresentanza unicamente di quelli del socio al fine di potersi giovare – a suo piacimento – della sentenza che gli sia più favorevole.

E’ pertanto del tutto indifferente che il curatore promuova l’azione spendendo il nome del solo fallimento sociale o, viceversa, del solo fallimento del socio, posto che, in un caso o nell’altro, il passaggio in giudicato della sentenza emessa nel relativo giudizio fa stato nei confronti dei creditori di entrambe le masse.

Questi i principi enunciati dalla Corte di Cassazione, prima sezione, Pres. Vittorio Ragonesi – Rel. Magda Cristiano, con ordinanza pubblicata il 21/01/2016, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ordinaria, promossa dal curatore di una società di persone in accomandata semplice, prima per il fallimento sociale e poi per il solo fallimento personale.

In particolare, la curatela del Fallimento sociale aveva promosso azione ex artt. 66 lf e 2901 cc nei confronti di un Istituto di credito e la domanda era stata respinta.

Successivamente il solo Fallimento del socio accomandatario, aveva proposto la medesima domanda, sul presupposto di essere un soggetto diverso, agendo in rappresentanza dei creditori del socio e la domanda veniva accolta prima dal Tribunale con sentenza, la quale poi veniva confermata anche in appello.

L’istituto di credito proponeva il ricorso per Cassazione, denunciando violazione del principio del ne bis in idem, alla luce del giudicato intervenuto con la prima sentenza di primo grado, eccezione rigettata dalla Corte d’Appello sul presupposto che la detta sentenza fosse intervenuta fra soggetti in parte diversi, non potendosi ritenere che il curatore del fallimento della società avesse agito anche nella veste di curatore del fallimento del socio accomandatario.

La Suprema Corte, nell’affermare la fondatezza del motivo, con l’ordinanza in esame, ha chiarito finalmente i termini della questione concernente la legittimazione ad agire del fallimento sociale in relazione agli atti compiuti dal socio illimitatamente responsabili e i limiti del principio dell’autonomia del patrimonio della società rispetto a quello dei soci, in relazione all’altro della rappresentanza del curatore del fallimento sociale.

Viene evidenziato, infatti, come nel caso di sentenza dichiarativa del fallimento di una società di persone e dei soci illimitatamente responsabili, il fatto che il patrimonio della società resti autonomo rispetto a quello dei soci, e che vadano conseguentemente tenute distinte le diverse masse attive e passive, non implichi che il curatore possa agire separatamente per la revocatoria del medesimo atto di disposizione compiuto dal socio, una volta in rappresentanza dei creditori della società e l’altra in rappresentanza unicamente di quelli del socio, in modo da potersi giovare — a suo piacimento – della sentenza che gli sia più favorevole.

La Corte precisa, poi, come dal principio ripetutamente affermato, secondo cui il curatore del fallimento sociale è attivamente legittimato ad agire in revocatoria anche contro atti di disposizione compiuti dal socio (in considerazione dell’interesse correlato agli effetti positivi che, ai fini del soddisfacimento dei creditori sociali, deriva dall’incremento dell’attivo del fallimento personale del socio) possa, al contrario, agevolmente ricavarsi che la pronuncia che definisce la causa in tal veste instaurata dal curatore è destinata a produrre in primo luogo i suoi effetti sulla massa attiva del socio: il vittorioso esperimento dell’azione comporterà infatti l’acquisizione del bene (o del tantundem) al medesimo patrimonio dal quale è fuoriuscito, con la conseguenza che sul ricavato potranno soddisfarsi anche i creditori particolari del socio.

A questo punto la Corte afferma il rilevante principio secondo cui è del tutto indifferente che il curatore promuova l’azione spendendo il nome del solo fallimento sociale o, viceversa, del solo fallimento del socio, posto che, in un caso o nell’altro, il passaggio in giudicato della sentenza emessa nel relativo giudizio fa stato nei confronti dei creditori di entrambe le masse.

E poiché, nel caso di specie, il curatore del Fallimento della s.a.s. aveva già proposto nei confronti dell’Istituto di credito le domande (di declaratoria di inefficacia ex artt. 66 e 2901 c.c. dell’atto di realizzazione dei titoli costituiti in pegno dal socio accomandatario e di condanna alla restituzione delle somme ricavate dalla vendita dei beni) oggetto anche del presente giudizio e tali domande erano state respinte con sentenza del Tribunale di Napoli passata in giudicato, atteso il principio del ne bis in idem, la Corte rileva come fosse dunque precluso al giudice di pronunciare sulle medesime domande, ancorché riproposte dall’attore nella sola veste di curatore del fallimento del socio accomandatario.

Sulla base di tale iter argomentativo, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e cassato senza rinvio la sentenza impugnata, condannando la curatela al pagamento delle spese di lite dei vari gradi di giudizio.

Ci sono voluti due gradi di giudizio per ottenere il riconoscimento del principio semplice e logico del ne bis in idem, essendo evidente che il medesimo soggetto giuridico non può giovarsi – a suo piacimento – della sentenza che gli sia più favorevole.

 

REVOCATORIA FALLIMENTARE: la concessione di un finanziamento in pool è espressione di fiducia della banca nell’imprenditore.

Procedimento patrocinato da DE SIMONE LAW FIRM

 

In tema di revocatoria fallimentare,per il raggiungimento della prova della scientia decoctionis con il mezzo delle presunzioni, non è sufficiente un’astratta conoscibilità oggettiva corroborata da un presunto dovere di conoscere a carico della banca.

 Ne consegue che, qualora un creditore, come un istituto bancario, abbia la possibilità di ottenere informazioni sulla situazione patrimoniale dei propri debitori in misura superiore a quella comune, non è possibile sostenere che, solo in quanto soggetto qualificato, quel creditore abbia, sempre e comunque, effettiva e concreta cognizione dell’irreversibile incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, in tal modo illegittimamente escludendo ogni dovere di allegazione, da parte del curatore, di elementi sintomatici della reale consapevolezza della crisi dell’imprenditore o, addirittura, determinando una vera e propria inversione dell’onere della prova, con la banca investita della necessità di dimostrare la propria inscientia decoctionis.

 La mera qualità di intermediario bancario assume rilevanza non di per sé ma solo in presenza di concreti collegamenti di quel creditore con gli indici sintomatici dello stato di insolvenza.

 Non dimostra la conoscenza dello stato di insolvenza la partecipazione della banca convenuta ad un pool di istituti di credito che concessero all’imprenditore, poi fallito, di un finanziamento ipotecario, costituendo di contro la stipulazione di tale contratto espressione di una preventiva verifica della sussistenza, in capo al soggetto beneficiario, di risorse economiche e finanziarie tali da garantirne la solvibilità e l’adeguata capacità di rimborso.

Il conferimento di due mandati irrevocabili all’incasso di crediti tributari non costituisce, ex se, manifestazione esteriore di uno stato di insolvenza, integrando, di norma, una forma di pagamento o di garanzia propria della prassi commerciale, con particolare riferimento alle operazioni di finanziamento a breve termine.

Questi i principi espressi dal Tribunale di Salerno, giudice dott. Alessandro Brancaccio, con la sentenza n. 4636 del 6 novembre 2015, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ex art. 67 lf.

Di seguito i fatti di causa.

Un imprenditore di importanza primaria ebbe a stipulare con un pool di banche un finanziamento ipotecario ed inoltreconferì mandati irrevocabili all’incasso.

Successivamente,dopo circa due anni,presentava domanda di concordato preventivo, poi risolto, motivo per il quale la quale il Tribunale dichiarava il fallimento della società.

Il curatore proponeva azione revocatoria fallimentare in danno della banca, chiedendo la dichiarazione di inefficacia delle rimesse pervenute sul conto corrente, sul presupposto che la banca fosse a conoscenza dello stato di insolvenza per aver stipulato un finanziamento in pool e per concesso finanziamenti dietro la cessione di credito di natura tributaria (cessioni Iva).

Si costituiva in giudizio l’istituto di credito, il quale contestava la sussistenza del requisito soggettivo, sul presupposto, in primis, della circostanza di aver sempre avuto la massima fiducia nel cliente, per averlo – ad esempio – sostenuto con il piano di finanziamento per il rilancio dell’impresa con altre aziende di credito, anche con la concessione di altre linee di credito aggiuntive.

La Banca contestava, altresì, gli altri elementi posti a supporto della dedottascientia decotionis, per essere gli stessi cronologicamente successivi alle rimesse bancarie oggettio di declaratoria di inefficacia.

Il Tribunale,dopo una analitica disamina di tutti gli elementi forniti dalla curatela, ha rigettato la domanda con condanna del fallimento al pagamento delle spese di lite.

 

IL COMMENTO

La conoscenza dello stato di insolvenza richiede la presenza di concreti collegamenti di quel creditore con gli indici sintomatici dello stato di insolvenza, qualirisultanze dei bilanci, protesti, iscrizioni ipotecarie, procedimenti esecutivi, dovendosi valorizzare le condizioni in cui l’accipiens si è trovato ad operare in una determinata situazione.

Non si possono ultilizzare a ritroso – come spesso avviene –elementi cronologicamente successivi per sostenere che la banca, in quanto operatore qualificato, avrebbe dovuto conoscere sempre e comunque lo stato di insolvenza, con imposizione a carico dell’istituto di credito del dono della chiaroveggenza ed esonero della curatela dall’assolvimento dell’onere della prova.

REVOCATORIA FALLIMENTARE: PROVA DELLA SCIENTIA DECOTIONIS: IRRILEVANTE L’ANDAMENTO DEL CONTO CON SCONFINAMENTI E/O SCOPERTI

IL RICORSO ALLE PRESUNZIONI NON PUÒ TRADURSI IN UNA PRESUNZIONE DI ESISTENZA FONDATA SULLA MERA POSSIBILITÀ DI ACQUISIZIONE.

Sentenza Corte di Appello di Napoli, Prima Sezione, Pres. Lopiano – Rel. Candia 30-01-2015 n.539

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/revocatoria-fallimentare-prova-della-scientia-decotionis-irrilevante-l-andamento-del-conto-con-sconfinamenti-e-o-scoperti.html

 

REVOCATORIA FALLIMENTARE: AI FINI DELLA SCIENTIA DECOCTIONIS NON RILEVA LA CLASSIFICAZIONE A SOFFERENZA DEL CONTO

È ONERE DEL CURATORE DIMOSTRARE LA EFFETTIVA CONOSCENZA DELLO STATO DI INSOLVENZA DELL’IMPRENDITORE

Sentenza Tribunale di Napoli, dott.ssa Alessia Notaro 09-01-2015 n.28

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/revocatoria-fallimentare-ai-fini-della-scientia-decoctionis-non-rileva-la-classificazione-a-sofferenza-del-conto.html

 

REVOCATORIA FALLIMENTARE: L’AFFIDAMENTO DI UN RAPPORTO BANCARIO PUÒ DESUMERSI DALLA CENTRALE RISCHI DELLA BANCA D’ITALIA

LE ANTICIPAZIONI BANCARIE NON COSTITUISCONO ATTI ANORMALI DI PAGAMENTO

Sentenza Tribunale di Nola, Giudice dott.ssa D’Inverno 17-03-2015

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/revocatoria-fallimentare-l-affidamento-di-un-rapporto-bancario-puo-desumersi-dalla-centrale-rischi-della-banca-d-italia.html

 

REVOCATORIA FALLIMENTARE: ESCLUSI I PAGAMENTI E LE GARANZIE POSTI IN ESSERE IN ESECUZIONE DEL CONCORDATO PREVENTIVO

IL LEGISLATORE HA PRIVILEGIATO LA CONTINUITÀ AZIENDALE E IL SALVATAGGIO DELLE IMPRESE IN CRISI RISPETTO ALLA PAR CONDICIO CREDITORUM

Sentenza Tribunale di Salerno, dott. Alessandro Brancaccio 21-10-2014 n.4928

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/revocatoria-fallimentare-esclusi-i-pagamenti-e-le-garanzie-posti-in-essere-in-esecuzione-del-concordato-preventivo.html

 

USURA: l’accertamento tecnico preventivo non può risolvere questioni di diritto

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Con il procedimento di accertamento tecnico preventivo non può essere richiesto l’accertamento e la risoluzione di questioni di diritto, quale l’accertamento della nullità del contratto di mutuo e dell’avvenuto superamento del tasso soglia di cui alla legge antiusura; bensì solo l’accertamento e la verifica dello stato di luoghi e cose.

 Questo il principio di diritto espresso dal Giudice del Tribunale di Nola, dott.ssa Roberta De Luca, che con ordinanza del 09.12.2015, ha rigettato la richiesta di accertamento tecnico ex art.696 cpc.

In particolare nel caso di specie, parte ricorrente aveva agito attivando la procedura di cui all’art. 696 cpc, assumendo di avere stipulato un contratto di mutuo con la Banca resistente ed assumeva di aver subito tra l’altro addebito di tassi di interesse non concordati; la nullità delle clausole contrattuali; il superamento del tasso soglia di cui alla legge 108/96; la nullità del contratto di mutuo, per cui chiedeva la nomina di un C.T.U. per la determinazione degli importi dovuti alla banca.

In merito al periculum in mora, il cliente asseriva che l’indeterminatezza che aveva caratterizzato il contratto di mutuo aveva impedito “la possibilità di fare progetti di spesa e di vita”.

Ebbene il Giudice, ha rigettato il ricorso compensando per metà le spese della procedura, condannando parte ricorrente al pagamento della restante metà delle spese del procedimento.

In merito alle motivazioni adottate, il Giudice ha ritenuto che il richiesto accertamento tecnico preventivo difetti del requisito della urgenza, atteso che lo stesso può essere richiesto prima dell’instaurazione di un giudizio di merito o nel corso dello stesso, ove vi sia urgenza di verificare lo stato dei luoghi, la qualità o la condizione delle cose che costituiscono oggetto dell’accertamento ma solo nel caso in cui sia prevedibile che, per qualsiasi ragione, possano disperdersi elementi di prova suscettibili di utilizzazione nel successivo giudizio di merito.

Diversamente, solo la consulenza preventiva come disciplinata dal novellato art.696 bis cpc è sganciata dal positivo apprezzamento del requisito dell’urgenza, avendo funzione deflattiva rispetto ad un instaurando giudizio di merito.

Il Giudice, inoltre, premesso e considerato, che la valutazione del requisito dell’urgenza è riservata al giudice di merito – il cui apprezzamento non è censurabile se congruamente motivato (cfr Cass. civ., sent. n. 5397 del 18.08.1983; conforme Cass. civ., sent. n. 8309 del 17.09.1996) – ha ritenuto che nel caso di specie il pericolo è genericamente delineato e non provato.

A ciò vi è da aggiungere, precisa l’adito Giudicante che la parte ha a sua disposizione l’art. 119, IV comma, del d. lgs, 385/1993 (cosiddetto T.U.B.) il quale consente al cliente il diritto: “(…)ad ottenere a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni”.

Sulla base delle motivazioni esposte ha rigettato il ricorso.

Sull’utilizzabilità dello strumento dell’accertamento tecnico preventivo e/o della consulenza tecnica preventiva di cui agli artt. 696 e 696 bis cpc, ai fini della richiesta di usurarietà di un contratto si possono consultare i seguenti precedenti in materia:

ATP: INAMMISSIBILE SE IL CLIENTE SI LIMITA A DEDURRE IL SUPERAMENTO DEL TASSO SOGLIA

LA CONSULENZA NON PUÒ ASSOLVERE AD UNA FUNZIONE MERAMENTE ESPLORATIVA

Ordinanza | Tribunale di Roma, dott.ssa Cecilia Bernardo | 07-07-2015

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/atp-inammissibile-se-il-cliente-si-limita-a-dedurre-il-superamento-del-tasso-soglia.html

 

ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO: INAMMISSIBILE PER LA VERIFICA DELL’USURA

AL CTU NON POSSONO DEMANDARSI VALUTAZIONI DI PERTINENZA ESCLUSIVA DEL GIUDICE

Ordinanza | Tribunale di Spoleto, Pres. Emilia Bellina | 18-05-2015

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/accertamento-tecnico-preventivo-inammissibile-per-la-verifica-dell-usura.html

 

ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO: INAMMISSIBILE SE FINALIZZATO ALL’ACCERTAMENTO DELL’USURA

IN QUESTI CASI APPARE CONTROVERSO NON SOLO IL QUANTUM MA ANCHE L’AN DELL’OBBLIGAZIONE RISARCITORIA

Ordinanza | Tribunale di Torino, Pres. dott. Giovanna Dominici | 08-10-2014

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/accertamento-tecnico-preventivo-inammissibile-se-finalizzato-all-accertamento-dell-usura.html

 

ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO: CASI DI INAMMISSIBILITÀ

E’ INAMMISSIBILE IN PRESENZA DI DOCUMENTI IN RELAZIONE ALLA CUI ESISTENZA E PRODUZIONE IN CAUSA RILEVANO PRINCIPI DI ONERE DELLA PROVA RICORRENTI IN UN GIUDIZIO ORDINARIO

Ordinanza | Tribunale di Milano, dott.ssa Laura Cosentini | 14-11-2013

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/accertamento-tecnico-preventivo-casi-di-inammissibilita.html

 

REVOCATORIA FALLIMENTARE: ai fini della scientia decoctionis non rileva la classificazione a sofferenza del conto

Procedimento patrocinato da DE SIMONE LAW FIRM

 

 Non è provata la conoscenza dello stato di insolvenza ove la curatela ponga quale unico elemento presuntivo il versamento della somma sul conto già a sofferenza.

 Non è possibile desumere la conoscenza dello stato di insolvenza dalla mera affermazione di un andamento anomalo del conto. La mancata allegazione dei bilanci e l’omessa descrizione di tutte le operazioni compiute nei sei mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento, non consentono di ricostruire, in base ad un processo logico-deduttivo, la scientia decoctionis in capo alla banca.

 È e resta onere del curatore dimostrare la conoscenza, da parte dell’istituto, dello stato di insolvenza dell’imprenditore.

 Non è possibile affermare che la banca, solo in quanto tale, abbia la possibilità di conoscere le difficoltà economiche e finanziarie dei propri clienti, posto che, così ragionando, si rischierebbe di escludere (ed illegittimamente) ogni necessità di allegazione da parte del curatore degli elementi sintomatici della concreta conoscenza della crisi dell’imprenditore o addirittura di dar luogo ad una vera e propria inversione dell’onere della prova.

Questi i principi espressi dal Tribunale di Napoli, sezione Fallimentare, Giudice Unico dott.ssa Alessia Notaro, con sentenza n. 285 del 09.01.2015, rigettando la domanda promossa dalla Curatela diretta a far dichiarare l’inefficacia delle rimesse bancarie effettuate dalla società fallita nei sei mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento.

La Curatela citando in giudizio la Banca riteneva che le rimesse effettuate dal correntista nei sei mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento fossero revocabili sul presupposto che la banca ben conosceva lo stato di insolvenza della società poi fallita atteso che le stesse erano state effettuate su conti già a sofferenza.

Si costituiva  in giudizio la Banca contestando le avverse richieste ben evidenziando che alla fattispecie deve essere applicata la disposizione di cui all’art.67 LF, nella sua nuova formulazione, che dispone la revocabilità delle rimesse solo a particolari condizioni di cui la curatela non aveva dato prova; oltre alla carenza dell’elemento soggettivo e oggettivo.

Il giudice partenopeo, nell’esaminare la domanda attorea, si è soffermato sull’analisi dell’elemento soggettivo della conoscenza dello stato di insolvenza cd. scientia decoctionis (da sempre oggetto di dibattito giurisprudenziale), il cui onere grava sul curatore.

In particolare, il curatore deve dare la prova effettiva e non meramente potenziale che la parte conosceva lo stato di insolvenza del correntista.

Il Giudice, poi, ben precisa che nel valutare gli elementi indiziari idonei a far desumere la prova della scientia decoctionis deve tenersi conto anche dello status professionale del soggetto che dovrebbe avere conoscenza del dissesto.

In tal senso fra gli operatori economici ritenuti più capaci devono senza dubbio annoverarsi gli istituti di credito i quali sono in grado di controllare, in modo continuativo, le eventuali variazioni patrimoniali dei loro clienti, potendo sia accedere alla centrale Rischi presso la Banca d’Italia, che conoscere anticipatamente i bilanci di esercizio o ancor assumere informazioni riservate da parte di altre banche.

Ciò tuttavia, afferma il Giudice, la qualifica dell’operatore quale “banca” non è di per sé idonea ad affermare l’implicita e automatica conoscenza dello stato di insolvenza del debitore fallito. Invero, una tale automaticità comporterebbe l’esclusione, del tutto illegittima, per il curatore, di dover dimostrare ulteriori elementi sintomatici della concreta conoscenza della crisi dell’imprenditore.

In tal senso è e resta onere del curatore dover dimostrare la conoscenza, da parte dell’istituto, dello stato di insolvenza dell’imprenditore.

Con riferimento al caso in esame, il Giudice precisa che la Curatela avrebbe fondato il proprio onere basandolo sulla circostanza per cui: “Le operazioni sarebbero state effettuate su di un conto a sofferenza in data di poco antecedente alla dichiarazione di fallimento”. In altri termini secondo la curatela la conoscenza dello stato di insolvenza sarebbe desumibile dalla mera affermazione di un andamento anomalo del conto.

Sul punto l’adito Giudicante, nel rigettare l’azione promossa dal fallimento ben evidenzia come tale unico elemento sintomatico indicato dal curatore non è di per se idoneo a dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo.

Ne è possibile, invero, affermare che la banca abbia, solo in quanto tale, la possibilità di conoscere le difficoltà economiche e finanziarie dei propri clienti, posto che, così ragionando, si rischierebbe di escludere (ed illegittimamente) ogni necessità di allegazione da parte del curatore degli elementi sintomatici della concreta conoscenza della crisi dell’imprenditore o addirittura di dar luogo ad una vera e propria inversione dell’onere della prova.

In altri termini, se può ragionevolmente ammettersi che la banca ha la possibilità tecnica ed organizzativa di conoscere la reale situazione patrimoniale dei propri clienti prima e meglio degli altri creditori, ciò evidentemente non basta per ritenere dimostrata la sua effettiva conoscenza dello stato di insolvenza del correntista poi fallito, essendo pur sempre necessario che il curatore deduca e dimostri in giudizio quelle circostanze di fatto da cui la banca, se del caso prima e meglio di altri operatori economici, avrebbe potuto trarre la consapevolezza delle difficoltà finanziarie del debitore al momento dell’adempimento.

Del resto, nel caso di specie, anche i dati concernenti il concreto andamento del conto. come registrato dagli estratti esibiti, si presentano del tutto insufficienti a sostenere la tesi della curatela attrice che, viceversa, dagli stessi, vorrebbe trarre argomenti certi a sostegno della dimostrazione della scientia decoctionis.

Alla luce delle suesposte considerazioni il Tribunale ha rigettato la domanda attorea ben chiarendo che la scientia decoctionis deve essere specificamente provata anche nei confronti della banca, operatore qualificato e non rileva la classificazione della posizione a sofferenza.

 

 


AMMISSIONE PASSIVO: anche se il contratto di c/c è privo di data certa, gli estratti provano l’anteriorità al fallimento

Procedimento patrocinato da DE SIMONE LAW FIRM

La produzione degli estratti conto è idonea a consentire l’ammissione al passivo del credito azionato, anche ove il contratto dal quale quest’ultimo scaturisce sia privo di data certa, atteso che la ricostruzione del rapporto bancario mediante le singole movimentazioni antecedenti al fallimento consente di ritenere tale negozio giuridico stipulato prima della sentenza dichiarativa.

L’anteriorità del contratto di conto corrente rispetto alla data della dichiarazione di fallimento è dimostrata dalla stessa proposizione, da parte della curatela, ai sensi degli artt. 67, comma 3, lettera b), e 70, comma 3, r.d. n. 267/1942, dell’azione diretta a conseguire la declaratoria di inefficacia delle rimesse effettuate dalla società debitrice, giacché tale iniziativa giudiziaria presuppone necessariamente la preventiva esistenza del rapporto bancario di cui trattasi.

La cessione di credito, al pari del mandato all’incasso, è inefficace nei confronti della massa e, come tale, suscettibile di revocatoria fallimentare nella sola ipotesi in cui è funzionalmente preordinata, quale mezzo solutorio indiretto, al ripianamento di pregresse esposizioni debitorie, ma non quando, in assenza di una comprovata passività consolidata, è strumentale all’erogazione di un finanziamento rispetto al quale si pone come forma di garanzia contestualmente prestata.

La stipulazione di un finanziamento fondiario non è affetta da alcuna nullità per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa, quand’anche diretta a ristrutturare pregresse esposizioni debitorie, assistite o meno da garanzia ipotecaria, non configurando un’ipotesi di frode alla legge, e non sussistendo alcuna disposizione legislativa che vieti o sanzioni il compimento di tale operazione economico-giuridica.

Questi i principi enunciati dal Tribunale di Salerno, Pres. Russo, Rel. Brancaccio, con il decreto ex art. 99 lf, del 18.12.2015, reso nell’ambito di un giudizio di opposizione allo stato passivo proposto da un Istituto di credito.

In particolare, la Banca chiedeva di essere ammessa al passivo in virtù di una pluralità di ragioni di credito tra cui un finanziamento ipotecario, il saldo di un conto corrente ordinario e vari conti anticipi.

Rigettata la domanda, veniva proposto ricorso ex art. 98 lf, giudizio in cui la curatela si costituiva sollevando una pluralità di eccezioni, tra cui le principali attengono la mancanza di data certa dei contratti, la revocabilità delle operazioni di anticipazione, la nullità del contratto di mutuo, la revocabilità dell’ipoteca iscritta a garanzia del finanziamento.

Il Tribunale di Salerno, dopo una attenta ricostruzione delle vicende processuali del giudizio, muove il proprio esame illustrando i principi in punto di data certa ex art. 2704 cod. civ. che imperniano l’accertamento della pretesa fata valere in sede di formazione dello stato passivo.

Sul punto e con specifico riferimento alla prova dei saldi di conto corrente e dei conti anticipi, in relazione ai quali la curatela aveva eccepito la mancanza di data certa dei relativi contratti, il Tribunale afferma il principio secondo cui la produzione degli estratti conto è idonea a consentire l’ammissione al passivo del credito azionato, anche ove il contratto dal quale quest’ultimo scaturisce sia privo di data certa, atteso che la ricostruzione del rapporto bancario mediante le singole movimentazioni antecedenti al fallimento consente di ritenere tale negozio giuridico stipulato prima della sentenza dichiarativa.

Ed infatti – viene precisato- quando i rapporti giuridici azionati dal creditore sono di durata, la mancanza del requisito della certezza della data non legittima, ex se, la reiezione della domanda di ammissione al passivo concorsuale, a differenza di quanto si verifica per i rapporti ad effetti istantanei, giacché proprio la loro protrazione temporale, soprattutto se non contestata dalla controparte, comprova l’anteriorità della stipulazione dei contratti bancari da cui promanano.

In definitiva, ad avviso del Tribunale, proprio gli allegati estratti conto, dimostrando la storicità e l’evoluzione di un rapporto bancario sorto e definito prima della dichiarazione di fallimento, costituiscono elementi idonei a dimostrare che il relativo contratto, sebbene privo di data certa, sia stato concluso dalle parti in un periodo antecedente all’instaurazione del procedimento concorsuale.

Il Tribunale, poi, correttamente osserva come l’anteriorità del contratto di conto corrente rispetto alla data della dichiarazione di fallimento sia dimostrata dalla stessa proposizione, da parte della curatela, ai sensi degli artt. 67, comma 3, lettera b), e 70, comma 3, r.d. n. 267/1942, dell’azione diretta a conseguire la declaratoria di inefficacia delle rimesse effettuate dalla società debitrice sul medesimo conto corrente, giacché tale iniziativa giudiziaria presuppone necessariamente la preventiva esistenza del rapporto bancario di cui trattasi.

Con riferimento, poi, ai conti anticipi, il Tribunale afferma come la certezza della data della documentazione prodotta sia attestata dalle date dei timbri postali stampigliati sulle singole richieste di finanziamento formulate dalla società debitrice all’opponente.

Ed invero, se la scrittura privata non autenticata forma un corpo unico con il foglio sul quale è impresso il timbro, la data risultante da quest’ultimo deve ritenersi data certa della stessa, giacché la timbratura eseguita in un pubblico ufficio deve considerarsi equivalente ad un’attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui è stata eseguita, gravando sulla parte che contesti la certezza della data l’onere di provare, pur senza necessità di proporre la querela di falso, che il contenuto della scrittura sia stato redatto in un momento diverso (cfr., ex plurimis, Cass. 11 ottobre 2006, n. 21814; Cass. 14 giugno 2007, n. 13912; Cass. 28 maggio 2012, n. 8438).

Passando, poi, all’esame delle eccezioni in punto di inefficacia delle operazioni finanziamento, il Tribunale di Salerno rigetta anche le dette eccezioni, affermando in primis il principio della revocabilità della cessione di credito, al pari del mandato all’incasso, nella sola ipotesi in cui sia funzionalmente preordinata, quale mezzo solutorio indiretto, al ripianamento di pregresse esposizioni debitorie, ma non quando, in assenza di una comprovata passività consolidata, sia strumentale all’erogazione di un finanziamento rispetto al quale si pone come forma di garanzia contestualmente prestata.

Ed infatti si afferma come le operazioni effettuate in virtù dei conti anticipi costituiscano ordinarie modalità di finanziamento dell’attività imprenditoriale, dal momento che consentono alla società debitrice di ottenere immediata liquidità a fronte del conferimento di mandati irrevocabili all’incasso o della cessione di crediti in scadenza, e non già mezzi di estinzione di preesistenti debiti scaduti ed esigibili, salvo che il Fallimento dimostri che la loro reale funzione sia quella di ripianare passività del conto corrente ordinario.

Per quanto attiene alle eccezioni sollevate dal fallimento in ordine al credito derivante dal finanziamento in pool, il Tribunale di Salerno ne esclude la nullità per illiceità della causa, ai sensi degli artt. 1418, 1343 e 1344 cod. civ., rilevandosi come il finanziamento fondiario non sia di per sé caratterizzato da un vincolo di destinazione, con la conseguenza che la somma erogata non deve essere necessariamente impiegata, a pena di nullità, ai sensi dell’art. 1418 cod. civ., per l’acquisto o il miglioramento dei cespiti sui quali è iscritta ipoteca, ma può essere utilizzata per qualsiasi finalità e, dunque, anche per il ripianamento di pregresse esposizioni debitorie, in tal modo consentendone una rinegoziazione, con una rimodulazione temporale e qualitativa del pagamento, a fronte della costituzione, da parte del beneficiario, di una garanzia reale (cfr. Cass. 11 gennaio 2001, n. 317; Cass. 18 settembre 2003, n. 13768; Cass. 20 aprile 2007, n. 9511; Cass. 26 marzo 2012, n. 4792).

Sul punto, viene correttamente osservato come il finanziamento fondiario, in definitiva, non integra ex se un finanziamento di scopo, dal momento che, per la sua validità, la somma erogata non deve essere diretta ad uno specifico fine che il beneficiario è tenuto a perseguire, né l’istituto bancario deve controllare l’utilizzazione della stessa, risultando connotato, piuttosto, dalla possibilità della concessione di una garanzia ipotecaria da parte del proprietario di beni immobili, rustici o urbani.

Da tanto ne consegue la validità di un finanziamento fondiario, quand’anche diretta a ristrutturare pregresse esposizioni debitorie, assistite o meno da garanzia ipotecaria, non configurando questa un’ipotesi di frode alla legge, non sussistendo alcuna disposizione legislativa che vieti o sanzioni il compimento di tale operazione economico-giuridica.

Quando un finanziamento fondiario è preordinato a realizzare l’estinzione di un precedente rapporto obbligatorio chirografario intercorrente tra l’istituto erogatore e il beneficiario o un terzo, la fattispecie negoziale integra non un meccanismo simulatorio, ma un vero e proprio procedimento indiretto voluto dalle parti al fine di garantire la banca, attraverso la sostituzione del precedente credito non privilegiato con un credito assistito da una causa legittima di prelazione, dal rischio dell’insolvenza del beneficiario. Tale operazione può provocare, al più, la lesione dei diritti degli altri creditori, ma non determina una nullità del contratto ai sensi dell’art. 1344 cod. civ., atteso che il negozio in frode alla legge è quello che persegue una finalità vietata in assoluto dall’ordinamento, per essere contraria a nonne imperative o ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume o per essere diretta ad eludere una norma imperativa.

Il Tribunale di Salerno rileva, tuttavia, come, nella fattispecie in esame, sia da escludere anche l’astratta inefficacia della garanzia ipotecaria nei confronti della massa dei creditori ai sensi dell’art. 66 lf, non avendo il fallimento dimostrato che le somme da  erogate dall’Istituto di credito siano state utilizzate per ripianare pregresse esposizioni debitorie di natura chirografaria e, dunque, per trasformare, in elusione del principio della par condicio creditomm, suoi precedenti crediti non privilegiati nei confronti della società debitrice in un credito assistito da una causa legittima di prelazione.

In conclusione, il Tribunale di Salerno, dopo l’analitica motivazione con cui ha affrontato scrupolosamente le molteplici questioni trattate, ha disatteso tutte le eccezioni sollevate dalla curatela ed ha accolto l’opposizione allo stato passivo proposta dalla Banca, con ammissione delle varie ragioni di credito al passivo.