RECLAMO EX ART. 18 L.F.: l’imprenditore ha l’onere di dimostrare il possesso congiunto dei requisiti di non fallibilità

Procedimento patrocinato da DE SIMONE LAW FIRM 

Lo stato di insolvenza che, in base al disposto dell’art. 5, comma 1, L.F., costituisce il presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento e che consiste nello stato d’impotenza patrimoniale, non transitoria, al regolare adempimento delle proprie obbligazioni, giustifica di per sé la dichiarazione di fallimento anche se le cause che l’hanno determinato non sono imputabili all’imprenditore commerciale.

L’imprenditore commerciale ha l’onere di dimostrare il possesso congiunto dei requisiti di non fallibilità, depositando una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata ed i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi commerciali che costituiscono la base documentale imprescindibile che il debitore deve fornire onde sottrarsi alla dichiarazione di fallimento.

 Questi i principi espressi dalla Corte d’Appello di Napoli, sez. prima, Pres. Rel. Lopiano, con la sentenza del 20.07.2016.

Nella fattispecie considerata, l’amministratore di una società fallita, proponeva reclamo ex art. 18 L.F., avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, deducendo la mancanza dei requisiti dimensionali previsti dall’art. 1, co. 2, L.F. ed argomentando, in particolare, che la società consortile fallita, costituita al solo fine di realizzare un certo progetto, aveva cessato ogni attività al completamento dell’opera prevista, omettendo gli amministratori di accertare e dichiarare la sopravvenuta causa di scioglimento e di provvedere quindi alla liquidazione e cancellazione della società; che i bilanci di esercizio del triennio precedente la presentazione del ricorso di fallimento non costituiscono l’unico strumento per provare il mancato superamento dei requisiti suindicati; che, nella fattispecie, trattandosi di società consortile, la cui durata è funzionalmente limitata alla realizzazione di un progetto, il raggiungimento dello scopo aveva determinato la completa dissoluzione dell’organizzazione aziendale.

Il Fallimento si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del reclamo poiché infondato in fatto ed in diritto.

La società creditrice si costituiva chiedendo, in via preliminare, di dichiarare l’inammissibilità del ricorso per carenza del requisito di cui all’art. 18, co. 2, L.F. e, nel merito, di disporne il rigetto poiché infondato in fatto ed in diritto e sfornito di prova, con vittoria di spese, competenze e rimborsi.

La Corte d’Appello di Napoli, richiamava, preliminarmente, la riforma del diritto fallimentare di cui al D.Lgs. n. 9/06, con il quale il legislatore, al fine di delimitare la soglia di fallibilità delle imprese, ha introdotto un’autonoma nozione di imprenditore non fallibile, delineata attraverso il riferimento ad una serie di requisiti dimensionali massimi che gli imprenditori commerciali congiuntamente non devono superare, specificando che, ai sensi dell’art. 15, co. 4, L.F., grava sull’imprenditore commerciale l’onere di dimostrare il possesso dei requisiti di non fallibilità, mediante deposito di apposita documentazione attestante la situazione, patrimoniale, economica, finanziaria aggiornata dell’impresa ed i bilanci societari relativi agli ultimi tre esercizi commerciali.

Nel caso di specie, il reclamante non aveva prodotto alcuna scrittura o documentazione contabile inerente l’attività d’impresa, al fine di provare, per il triennio di riferimento, l’ammontare dell’attivo patrimoniale, dei ricavi e dei debiti dell’impresa, limitandosi ad allegare la cessazione di fatto della medesima.

La Corte adita, rilevato lo stato di insolvenza della società, presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento, reso, peraltro, evidente da una esposizione debitoria reale, aggravata dalla dedotta cessazione dell’attività d’impresa e dall’esito negativo del pignoramento mobiliare tentato presso la sede sociale, dichiarava l’infondatezza della domanda, rigettava il reclamo e condannava il reclamante al pagamento delle spese di lite.

PROCEDURA ESECUTIVA: per privilegio fondiario non è necessaria insinuazione al passivo fallimentare

Procedimento patrocinato da De Simone Law

Quando il fallito non è debitore ma solo terzo datore di ipoteca, ai fini del riconoscimento del privilegio fondiario, il creditore banca non dovrà avvalersi della procedura di insinuazione al passivo fallimentare, non essendovi alcuna par condicio tra i creditori del fallito da salvaguardare, bensì potrà, per la realizzazione dei propri diritti in sede esecutiva, ricorrere alle modalità di cui agli artt. 602 e 604 cpc, in tema di espropriazione contro il terzo proprietario.

Questo il principio espresso dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Giudice dott.ssa Maria Rosaria Pupo, con l’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 512 cpc, a definizione di una procedura espropriativa.

Nel caso di specie, la Banca aveva concesso un contratto di mutuo fondiario a garanzia del quale altra società si era costituita terza datrice di ipoteca.

La Banca aveva poi avviato procedura esecutiva immobiliare ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 602 e segg. cpc, nei confronti della terza proprietaria, nelle more dichiarata fallita.

All’esito dell’aggiudicazione del compendio pignorato alla Banca, veniva versato il prezzo ai sensi dell’art. 41, IV comma, della legge 385 del 1993 e in virtù del progetto di distribuzione predisposto dal delegato alla banca sarebbe spettata l’ulteriore somma residua.

Tuttavia, il Curatore del Fallimento si opponeva all’approvazione del progetto di distribuzione così come approntato dal delegato, sull’erroneo presupposto che, seppur il credito della banca derivasse da mutuo fondiario, alla stessa non era stato riconosciuto in sede fallimentare il detto privilegio.

La Banca, infatti, era stata ammessa al passivo in via chirografaria nella massa fallimentare del socio, sul presupposto che il fallito non era proprietario del bene oggetto di ipoteca, in quanto nella titolarità di altro soggetto.

L’ammissione in via chirografaria era stata oggetto di impugnazione da parte della Banca ma anche la Corte d’Appello aveva riconosciuto che la società fallita non era debitrice della Banca ma solo terza datrice di ipoteca, con la conseguente preclusione dall’ammissione allo stato passivo della società e con la sola possibilità per la Banca di agire in via esecutiva per ottenere il soddisfacimento del credito, dal ricavato della vendita del bene.

Nonostante ciò, il professionista delegato aveva ritenuto di dover modificare il piano di riparto, prevedendo la restituzione al fallimento da parte della Banca delle somme incassate ai sensi dell’art. 41 TUB atteso che la banca non era stata ammessa al passivo con privilegio ipotecario.

Il Giudice dell’Esecuzione, pertanto, richiamando la conforme giurisprudenza in materia ha risolto il contrasto sorto tra i creditori, statuendo correttamente e definitivamente che se il “fallito non è debitore ma terzo datore di ipoteca, ai fini del riconoscimento del privilegio fondiario in sede esecutiva non è necessaria l’insinuazione al passivo fallimentare poiché non vi è alcuna par condicio tra i creditori del fallito da salvaguardare”.

Per altri precedenti si veda:

ESECUZIONE: per attribuzione provvisoria ricavato vendita a creditore fondiario non è necessaria insinuazione al passivo

Essa rileva solo ai fini del riconoscimento definitivo del credito in sede fallimentare

Ordinanza | Tribunale di Lodi, Dott.ssa Arianna D’Addabbo | 20.05.2016 |

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/esecuzione-per-attribuzione-provvisoria-ricavato-vendita-a-creditore-fondiario-non-e-necessaria-insinuazione-al-passivo

MUTUO: il finanziamento con ammortamento rateale cosiddetto “alla francese” non determina anatocismo

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

Non è concettualmente configurabile il fenomeno anatocistico con riferimento al mutuo (o finanziamento) con ammortamento c.d. alla francese, difettando in sede genetica del negozio il presupposto stesso dell’anatocismo, vale a dire la presenza di un interesse giuridicamente definibile come “scaduto” sul quale operare il calcolo dell’interesse composto ex art. 1283 c.c..

Questo il principio espresso dal Giudice di Pace di Palmi, dott. Giuseppe Trunfio, con la sentenza del 21 giugno 2016, n. 624.

Nel caso di specie, i clienti citavano in giudizio la banca con la quale intercorreva contratto di prestito, affinché ne fosse dichiarata la nullità parziale per violazione della buona fede nella conclusione e nella esecuzione, nonchè l’illegittima applicazione di interessi anatocistici, con conseguente condanna della convenuta, previo ricalcolo del dovuto, alla restituzione delle somme indebitamente addebitate e/o riscosse.

Gli istanti sostenevano, in particolare, che fosse stato adottato dall’Istituto Bancario l’illegittimo sistema dell’ammortamento cd. “alla francese” che prevede rate costanti composte da quota capitale e quota interessi, calcolati con la formula dell’interesse composto, generando una ipotesi di anatocismo in violazione dell’art. 1283 c.c..

La Banca si costituiva in giudizio sostenendo la legittimità del contratto di prestito personale e chiedendo il rigetto delle eccezioni e deduzioni di controparte.

Il Giudice adito riteneva la domanda infondata, respingendo la doglianza sul punto dell’indeterminatezza del tasso d’interesse, poiché, nel caso di specie, nel piano di ammortamento, allegato al contratto di prestito personale e regolarmente accettato dalle parti, mediante sottoscrizione, erano espressi gli importi di tutte le rate costanti di rimborso del finanziamento nonché il costo complessivo di esso e l’importo complessivamente dovuto in restituzione, così da non residuare margini di indeterminatezza.

In merito alla censurata pratica anatocistica che parte attrice, poi, sosteneva come insita nel sistema di ammortamento alla francese applicato, il Giudice ha ritenuto che ove vi sia un contratto di finanziamento con ammortamento rateale cosiddetto “alla francese”, il meccanismo di ammortamento è strutturato con una rata costante che si compone di una quota di interessi e di una quota capitale. L’importo della rata costante dell’ammortamento è calcolato sulla base della somma dovuta per capitale, del tasso di interesse e del numero delle rate, attraverso l’impiego del principio dell’interesse composto. Tale sistema non determina alcun fenomeno anatocistico, in quanto gli interessi vengono calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata. Ogni rata determina il pagamento, unicamente, degli interessi dovuti per il periodo cui la rata stessa si riferisce, importo che viene, quindi, integralmente pagato con la rata, laddove la rimanente parte della quota serve ad abbattere il capitale. La quota di interessi di cui alla rata successiva è calcolata unicamente sulla residua quota di capitale, cioè sul capitale originario, detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti.

Come affermato dalla prevalente giurisprudenza di merito, infatti, tale metodo “…non implica affatto una capitalizzazione degli interessi, essendo questi unicamente calcolati sulla quota di capitale via via decrescente, ovvero sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o con le rate precedenti.” (cfr: Trib. Monza, sez. III, sent., 27-03-2015).

Gli interessi convenzionali sono, quindi, calcolati unicamente sulla quota di capitale ancora dovuta e per il periodo di riferimento della rata. La quota di interessi dovuti dal soggetto che ha ricevuto il finanziamento, nelle rate successive, non è determinata capitalizzando in tutto o in parte gli interessi corrisposti nelle rate precedenti.

In definitiva, posto che la clausola anatocistica è stata espressamente pattuita in conformità all’art. 3 della delibera CICR, come tale non incorre nel divieto di cui all’art. 1283 cod. civ..

Per approfondimenti, si rinvia ai seguenti contributi:

MUTUO: IL PIANO DI AMMORTAMENTO ALLA FRANCESE NON CAUSA ANATOCISMO

IL TASSO DI MORA VA CONFRONTATO CON IL TASSO ANNUO EFFETTIVO DEL CREDITO EROGATO

Sentenza, Tribunale di Treviso, dott.ssa Elena Rossi, 02.12.2015

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/mutuo-il-piano-di-ammortamento-alla-francese-non-causa-anatocismo.html

MUTUI: IL PIANO DI AMMORTAMENTO ALLA FRANCESE NON COMPORTA ANATOCISMO

SOSTENERE IN GIUDIZIO UN EFFETTO ANATOCISTICO AUTOMATICO INTEGRA GLI ESTREMI DELLA LITE TEMERARIA

Sentenza | Tribunale di Verona, dott. Andrea Mirenda | 24-03-2015 n.758 

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/mutui-il-piano-di-ammortamento-alla-francese-non-comporta-anatocismo.html

MUTUO: VALIDO IL PIANO DI AMMORTAMENTO PROGRESSIVO ALLA “FRANCESE”

NON SI VERIFICA ALCUN FENOMENO ANATOCISTICO IN QUANTO GLI INTERESSI SI CALCOLANO SULA QUOTA DI CAPITALE DECRESCENTE

Sentenza | Tribunale di Salerno dott. Alessandro Brancaccío | 30-01-2015 n.587

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/mutuo-valido-il-piano-di-ammortamento-progressivo-alla-francese.html



 

FIDEIUSSIONE OMNIBUS: ove previsto il pagamento a prima richiesta, il rapporto si qualifica come contratto autonomo di garanzia

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

 

La sussistenza di una clausola di pagamento a semplice richiesta deve orientare l’interpretazione del contratto di fideiussione quale contratto autonomo di garanzia, salva l’ipotesi di evidente discrasia con l’intero contenuto della convenzione negoziale.

I garanti non possono appellarsi ad alcuna ragione di invalidità del rapporto principale sia in punto di redazione per iscritto del patto relativo agli interessi, sia riguardo all’anatocismo e alla commissione di massimo scoperto, sia riguardo all’autenticità delle sottoscrizioni apposte ai contratti di conto corrente ed alla regolazione economica di detti rapporti, trattandosi di profili che afferiscono al debito principale che – ove ammesse – sortirebbero l’effetto di ritardare il pagamento.

Questi i principi espressi dal Tribunale di Salerno, Dott. Giuseppe Fortunato, con la sentenza n. 2971 del 20/06/2016.

In particolare è accaduto che dei soggetti rilasciavano fideiussione in favore di una società di capitali con l’obbligo di pagamento a prima richiesta.

Successivamente la Banca otteneva decreto ingiuntivo che veniva opposto dai fideiussori con separati atti, i quali eccepivano la mancanza di prova del credito come risultante dagli estratti conto prodotti in giudizio, l’applicazione di interessi non concordati per iscritto e capitalizzati periodicamente e chiedendo l’accoglimento dell’opposizione e la revoca dell’ingiunzione, con vittoria di spese.

La Banca eccepiva la validità delle garanzie prestate ed il loro carattere autonomo rispetto all’obbligazione principale, affermava di aver concordato le condizioni economiche dei rapporti, poi adeguati alla delibera CICR 09.02.2000, quanto alla validità dell’anatocismo e chiedeva la conferma del decreto ingiuntivo opposto.

Il Tribunale di Salerno, preliminarmente, rilevava che il contratto di fideiussione prevedeva espressamente l’obbligo di pagamento del debito garantito a prima richiesta, anche in caso di opposizione del debitore, la persistenza dei garanti anche in caso di invalidità dell’obbligazione principale, l’onere del correntista di tenersi informato sulle condizioni del debitore, nonché la rinuncia alla preventiva escussione, qualificando il rapporto come contratto autonomo di garanzia.

Ad avviso del Giudice adito, premesso che l’interpretazione e la qualificazione del contratto devono compiersi alla luce dell’intero complesso delle relative pattuizioni essendo inammissibile una valutazione atomistica delle relative clausole, la semplice sussistenza di una clausola di pagamento a semplice richiesta è tale da consentire una qualificazione del rapporto quale contratto autonomo di garanzia, salve evidenti, eventuali discrasie con l’intero contenuto della convenzione negoziale.

All’uopo, il Tribunale campano osservava che, in virtù della qualificazione del contratto di fideiussione quale contratto autonomo di garanzia, il rischio di insolvenza del debitore non poteva che ricadere sui fideiussori stessi, i quali non avevano titolo all’esercizio dell’azione di ripetizione nei confronti del creditore, essendo il debitore principale l’unico legittimato a pretendere la restituzione di quanto versato indebitamente: in altri termini, l’obbligazione dei fideiussori non dipende dalla validità di quella del debitore principale, restando esclusa la possibilità per i garanti di invocare eventuali ragioni afferenti a detti rapporti per sottrarsi all’obbligo assunto.

Per tali motivi il Tribunale rigettava l’opposizione, dichiarava esecutivo il decreto ingiuntivo opposto e condannava i fideiussori al pagamento delle spese di lite.

Per ulteriori approfondimenti in materia si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:

FIDEIUSSIONE: se previsto pagamento immediato e senza eccezioni, il rapporto si qualifica come contratto autonomo di garanzia

Non si applicano i limiti temporali entro cui rivolgere la domanda di pagamento al fideiussore ex art. 1957 c.c.

Sentenza | Tribunale di Nocera Inferiore, dott. Gustavo Danise |26.05.2016 | n.885

http://expartecreditoris.it/provvedimenti/fideiussione-se-previsto-pagamento-immediato-e-senza-eccezioni-il-rapporto-si-qualifica-come-contratto-autonomo-di-garanzia

 

FIDEIUSSIONE OMNIBUS: ONERE DELLA PROVA DELL’ADEMPIMENTO A CARICO DEL DEBITORE

IL GARANTE DEVE PROVARE LA NULLITÀ DEL CONTRATTO GARANTITO O L’ILLICEITÀ DELLA CAUSA CON PROVA PRONTA E LIQUIDA

Sentenza, Tribunale di S.M.C.V., dott.ssa Concetta Serino, 04-02-2016 n.519

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/fideiussione-omnibus-onere-della-prova-dell-adempimento-a-carico-del-debitore.html

 

CONTRATTO AUTONOMO GARANZIA: L’OBBLIGAZIONE È DEL TUTTO SGANCIATA DA QUELLA GARANTITA

IL GARANTE NON PUÒ OPPORRE AL CREDITORE LA NULLITÀ DI UN PATTO RELATIVO AL RAPPORTO FONDAMENTALE

Sentenza | Tribunale di Napoli, dott.ssa Stefania Starace | 24-07-2015 | n.10683

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/contratto-autonomo-garanzia-l-obbligazione-e-del-tutto-sganciata-da-quella-garantita.html

 

 


 

AMMISSIONE AL PASSIVO: il certificato di mancata opposizione del decreto ingiuntivo è sufficiente

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

Ai fini dell’opponibilità del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo e non opposto è sufficiente che il creditore produca quale prova della definitività il certificato di mancata opposizione rilasciato dalla cancelleria.

Questo il principio espresso dal Tribunale di Nola, sez. I civile fallimentare, Pres. – Rel. Eduardo Savarese con il decreto del 17.06.2016 n. 796.

Nel giudizio di opposizione allo stato passivo ex art. 98 l.f. la Banca si è opposta al fallimento per essere stata esclusa dalla distribuzione delle passività sul presupposto che il credito vantato si fondava su di un decreto ingiuntivo non opposto.

Il Fallimento non si costituiva in giudizio e ne veniva dichiarata la contumacia.

La questione è la seguente: premesso che principio pacificamente ammesso è che il decreto ingiuntivo deve essere passato in cosa giudicata prima della dichiarazione di fallimento onde essere opponibile, si discute se il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo e non opposto è titolo esecutivo per l’ammissione al passivo qualora il creditore produca quale prova della definitività il certificato di mancata opposizione rilasciato dalla cancelleria.

Il giudice delegato, invocando il precedente della Corte di Cassazione n. 1650/14, e rilevando la mancanza di certificato ex art. 647 c.p.c. emesso dal giudice prima della dichiarazione di fallimento, reputava non opponibile il decreto.

Non appare condivisibile l’orientamento di legittimità (restrittivo) per cui ai fini dell’esecutorietà è necessario che venga emesso il decreto ex art. 647 c.p.c. prima della dichiarazione di fallimento.

Invero, il Collegio osserva che la norma ora citata non prevede l’emissione del decreto quale atto funzionale ad accertare la definitività del decreto ingiuntivo, ma quale atto funzionale a dichiarare l’esecutività del decreto ingiuntivo per mancata opposizione.

La norma è dunque dettata per i casi in cui, essendo stato emesso un decreto ingiuntivo non provvisoriamente esecutivo (che è la regola), e non essendo stata proposta opposizione, il ricorrente debba ottenere la esecutività del decreto, cioè la trasformazione del titolo giudiziale in titolo giudiziale esecutivo.

È evidente che quando, come nella specie, tale esecutività il decreto già possegga perché è stato emesso esecutivo un decreto ex art. 647 c.p.c. risulterebbe ultroneo, in quanto il titolo giudiziale esecutivo già c’è. Certo, può predicarsi un’ulteriore funzione, cioè quella di accertare la corretta esecuzione della notificazione all’ingiunto: infatti, 1′ art, 647 c.p.c. comma secondo stabilisce che, ove il decreto sia dichiarato esecutivo ai sensi “del presente articolo”, non potrà essere più proposta opposizione.

Invero, il Collegio ha inteso dare un’interpretazione alla norma secondo il generale canone di ragionevolezza per cui: blindare il decreto secondo la procedura indicata non pone una strada esclusiva al ricorrente, in quanto, ove venga proposta opposizione, egli potrà sempre provare di avere correttamente notificato e che, dunque, l’opposizione è tardiva, Nella specie, poi, in cui il debitore fallisca potrebbe essere la curatela interessata a propone opposizione? Di certo no, potendo, semplicemente, non ammettere ove contesti il merito della pretesa creditoria”.

Ne deriva che: “nel caso di decreto provvisoriamente esecutivo, la certificazione di cancelleria sulla mancanza di opposizioni pendenti è requisito sufficiente a reputare la definitività del decreto ingiuntivo”.

Quanto al secondo profilo, e cioè la mancata prova del versamento delle somme, invero il creditore ricorrente ebbe a depositare la lista dei movimenti attinenti al finanziamento. Tuttavia, a rigore il Collegio ritiene che tale mera lista non è prova sufficiente del versamento, che invece è fornita in giudizio, nel caso di specie, con la produzione degli estratti conto bancari.

Il Collegio prosegue rilevando che: “in termini più generali, che l’accertamento del passivo va svolto coniugando rigore e opportuna duttilità, valorizzando le specifiche circostanze del caso concreto, le quali qui si sostanziano nella circostanza non irrilevante che il ricorrente odierno fu anche il creditore che richiese ed ottenne la dichiarazione di fallimento: ciò lo si sottolinea in ordine non al primo motivo di opposizione, ma al secondo, cioè alla carenza di prova dell’erogazione dei prestiti, evidentemente delibata in fase pre-fallimentare onde fondare la legittimazione del creditore ricorrente”.

Il Tribunale ha accolto l’opposizione ammettendo l’opponente al passivo del fallimento opposto con compensazione delle spese di lite nella misura del 50% e condanna la curatela opposta al pagamento della restante parte a favore della Banca.

IL COMMENTO

L’accertamento del passivo va svolto coniugando rigore e opportuna duttilità logica.

E’ pacifico ed evidente che il creditore mediate il certificato di non prodotta opposizione può fornire la prova che il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo e come tale opponibile alla curatela.

Si evidenzia che la sentenza della Corte di Cassazione n. 1650/14, (link

http://expartecreditoris.it/provvedimenti/ammissione-al-passivo-decreto-ingiuntivo-%c2%96-mancanza-esecutivita-%c2%96-inopponibilita-curatore )

interpretata in modo erroneo dalla curatela, era già stata oggetto di commento su questa rivista ove era stato scritto Il creditore che vuole conseguire l’ammissione al passivo in virtù di un decreto ingiuntivo non opposto, deve provare la definitività del provvedimento e cioè il passaggio in giudicato. Il modo più facile e logico è rappresentato della produzione del certificato di non prodotta opposizione al fine di superare supera ogni possibile contestazione.”

PROCEDIMENTI CAUTELARI: escluso periculum in mora in caso di prolungata inerzia del ricorrente

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

Non può ritenersi sussistente il requisito del “periculum in mora”, necessario ai fini della proposizione del procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., nel caso in cui il l’inerzia del ricorrente si sia protratta per un periodo di tempo tale da far ritenere che, in caso di tempestiva proposizione della domanda in via ordinaria, il giudizio sarebbe giunto a definizione.

Questo il principio espresso dal Tribunale di Napoli, Dott. Ettore Pastore Alinante, con la sentenza dell’08.03.2016.

Una mutuataria depositava ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. col quale chiedeva di ordinare la sospensione della trattenuta di 1/5 della pensione effettuata da un Istituto di previdenza nei suoi confronti e del contratto di mutuo presuntivamente stipulato con la Banca mutuante, rimborsabile mediante cessione pro solvendo di quote della pensione, lamentando la mancata sottoscrizione del predetto contratto e producendo in giudizio una perizia grafologica a sostegno delle proprie affermazioni.

La ricorrente, peraltro, rilevava che solo quattro anni dopo l’instaurazione del presunto rapporto contrattuale, aveva ricevuto documento di sintesi e di rendiconto con il quale le era stato comunicato il passaggio del credito in contestazione dalla Banca cedente alla Banca cessionaria.

La Banca si costituiva chiedendo il rigetto nel merito del ricorso, per assenza dei presupposti invocati del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Il Tribunale di Napoli, rilevata la colpevole inerzia della ricorrente che, in quattro anni, non si era mai opposta alla detrazione di 1/5 della pensione se non dopo la comunicazione dell’avvenuta cessione del credito nei suoi confronti, né aveva provveduto a disconoscere la documentazione versata in atti dalla Banca cessionaria a sostegno delle proprie ragioni, escludeva la sussistenza degli elementi del periculum in mora e del fumus boni iuris giustificativi del procedimento d’urgenza, rigettando la domanda cautelare e condannando la ricorrente al pagamento delle spese di lite.

Secondo il Giudice partenopeo, il requisito del periculum in mora, inteso quale imminente ed attuale pregiudizio al soddisfacimento del diritto soggettivo che si assume leso nell’ipotesi in cui esso rimanesse senza forma di tutela sino alla pronuncia di merito, non sussiste allorquando l’inerzia del ricorrente si sia protratta per un periodo di tempo tale da far ritenere che, in caso di tempestiva proposizione della domanda in via ordinaria, il giudizio di primo grado sarebbe giunto a definizione.

 

 

CONSULENZA TECNICA PREVENTIVA: inammissibile in caso di contestazioni in tema di usura

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

Il ricorso ad una consulenza tecnica preventiva, quale strumento di composizione della lite, è inammissibile nelle ipotesi in cui l’Istituto di credito neghi in radice la dedotta usurarietà degli interessi applicati in un contratto di mutuo, ovvero quando risulti controverso finanche l’an debeatur; in questi casi, l’instaurazione del giudizio di merito sarebbe necessaria e la c.t.p. ex art. 696 bis c.p.c. verrebbe a perdere la sua finalità precipua.

Questo il principio espresso dal Tribunale di Cagliari, Dott. Ignazio Tamponi, con l’ordinanza del 29.04.2016.

Nel caso di specie, due ricorrenti, mediante ricorso ex art. 696 bis c.p.c, chiedevano al Tribunale di Cagliari di voler disporre una consulenza tecnica preventiva al fine di accertare il superamento del tasso soglia nel contratto di mutuo stipulato con la Banca, con specifico riferimento agli interessi corrispettivi concretamente applicati.

Si costituiva in giudizio la Banca la quale si opponeva al conferimento dell’incarico al CTU eccependo l’inammissibilità dello strumento della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite essendo insorte contestazioni in materia di usura.

Il Giudice adito, all’esito dell’esame delle difese svolte dalle parti, preso atto della copiosa rassegna giurisprudenziale versata in atti dalla Banca, ha accolto l’eccezione di inammissibilità dello strumento della consulenza tecnica preventiva avendo l’Istituto di credito negato in radice l’usurarietà degli interessi applicati, ed ha, pertanto, rigettato il ricorso compensando tra le parti le spese processuali.

Il Tribunale di Cagliari ha aderito, dunque, al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui lo strumento della consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. perde la sua specifica finalità nel caso in cui sorga una contestazione tra le parti in tema di usura e, dunque, risulti controverso non il quantum debeatur ma lo stesso an debeatur; in tali ipotesi, infatti, si rende necessaria, ai fini della definizione della controversia, l’instaurazione di un giudizio di merito.

In senso conforme, si richiamano i seguenti precedenti giurisprudenziali:

CONSULENZA TECNICA PREVENTIVA: INAMMISSIBILE PER QUESTIONI GIURIDICHE COMPLESSE

LA CTP EX ART.696 BIS CPC NON PUÒ SUPPLIRE ALLA CARENZA DOCUMENTALE DELLA PARTE

Ordinanza Tribunale di Parma, dott. Roberto Piscopo 28-10-2015

http://www.expartecreditoris.it/component/joomd/provvedimenti/items/view/consulenza-tecnica-preventiva-inammissibile-per-questioni-giuridiche-complesse.html

 

ART.696 BIS: INAMMISSIBILE PER ACCERTARE L’INVALIDITÀ ANNOTAZIONI IN C/C

LA VERIFICA DI TASSI DEBITORI ULTRALEGALI E/O DEL TASSO SOGLIA RISULTA ANTICIPATORIO DI UN GIUDIZIO DI MERITO

Ordinanza Tribunale di Parma, dott. Roberto Piscopo 27-08-2014 n.-

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/art-696-bis-inammissibile-per-accertare-l-invalidita-annotazioni-in-c-c.html

CONSULENZA TECNICA PREVENTIVA: INAMMISSIBILE QUANDO LA DECISIONE DELLA CAUSA IMPLICA LA SOLUZIONE DI QUESTIONI GIURIDICHE COMPLESSE

TALE STRUMENTO PROCESSUALE NON PUÒ ESSERE UTILIZZATO PER DARE CONSISTENZA NUMERICA A SEMPLICI E GENERICHE ALLEGAZIONI, SUSCETTIBILI DI ESAME IN SEDE DI GIUDIZIO DI MERITO

Ordinanza Tribunale di Roma, dott. Massimo Falabella 21-07-2014

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/consulenza-tecnica-preventiva-inammissibile-quando-la-decisione-della-causa-implica-la-soluzione-di-questioni-giuridiche-complesse.html

ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO: INAMMISSIBILE SE FINALIZZATO ALL’ACCERTAMENTO DELL’USURA

IN QUESTI CASI APPARE CONTROVERSO NON SOLO IL QUANTUM MA ANCHE L’AN DELL’OBBLIGAZIONE RISARCITORIA

Il ricorso per accertamento tecnico preventivo è inammissibile quando la decisione della causa implichi la soluzione di questioni giuridiche complesse o l’accertamento di fatti che esulino dall’ambito delle indagini di natura tecnica.

Inammissibile il ricorso ex art. 696 bis cpc quando è finalizzato all’accertamento della nullità delle clausole contrattuali inerenti la capitalizzazione trimestrale degli interessi, l’addebito della c.m.s. ovvero il superamento dei tassi soglia usura poiché in questi casi appare controverso non solo il quantum ma anche l’an e cioè l’effettiva esistenza dell’obbligazione risarcitoria.

Ordinanza | Tribunale di Torino, Pres. dott. Giovanna Dominici | 08-10-2014

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ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO: CASI DI INAMMISSIBILITÀ

E’ INAMMISSIBILE IN PRESENZA DI DOCUMENTI IN RELAZIONE ALLA CUI ESISTENZA E PRODUZIONE IN CAUSA RILEVANO PRINCIPI DI ONERE DELLA PROVA RICORRENTI IN UN GIUDIZIO ORDINARIO

È inammissibile l’istanza di espletamento di un accertamento tecnico preventivo quando risulti diretto all’accertamento di pretese restitutorie o di non debenza che tuttavia, presupponendo assorbenti e preliminari valutazioni giuridiche dei differenti ambiti negoziali, risulterebbe indebitamente anticipatorio di un giudizio di merito.

Ordinanza | Tribunale di Milano, dott.ssa Laura Cosentini | 14-11-2013

http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/accertamento-tecnico-preventivo-casi-di-inammissibilita.html 

OPPOSIZIONE ALLA SCISSIONE: funzione e natura

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

 Il rimedio della opposizione al progetto di scissione parziale – a contenuto “lato sensu” cautelare – ha la funzione di assicurare il permanere della garanzia generica sul patrimonio del debitore, prevista dall’art. 2740 c.c., ed ha natura contenziosa in quanto diretto ad accertare l’insufficienza patrimoniale della società che risulta dalla fusione o scissione quale debitrice in luogo di quella originaria.

La responsabilità solidale non può escludere o ridurre il concreto pericolo che la scissione parziale leda le aspettative di recupero del credito della parte opponente allorquando non è stato dimostrato che tutti i beni trasferiti alla società beneficiaria abbiano un valore tale da soddisfare appieno il creditore.

Questo è il principio espresso dal Tribunale di Napoli, Pres. Buttafoco, Rel Caiazzo nella sentenza del 19 febbraio 2016, n. 2224.

Nella fattispecie in esame, una Banca, affermando di essere creditrice, nei confronti di una società, dell’importo complessivo di circa euro 3.700.000, di cui circa 3.200.000,00 garantito da ipoteca iscritta su beni immobili, trasferiti ad un’altra società attraverso un progetto di scissione parziale, proponeva opposizione alla detta scissione chiedendo che fosse dichiarata l’inefficacia della stessa operazione straordinaria trattandosi di atto che escludeva o riduceva fortemente le possibilità di recuperare il proprio credito.

Il Tribunale, accogliendo la domanda della banca opponente, ha chiarito che il rimedio della opposizione alla scissione ha la funzione di assicurare il permanere della garanzia generica sul patrimonio del debitore ed ha natura contenziosa in quanto diretto ad accertare l’insufficienza patrimoniale della società che risulta dalla fusione o scissione quale debitrice in luogo di quella originaria.

Sotto questo profilo, quindi, l’opposizione viene inquadrata nei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale generica, come rimedio volto ad impedire l’esecuzione di un atto dispositivo del patrimonio del debitore e a tutelare l’interesse dei creditori alla soddisfazione coattiva del credito, nonostante l’inadempimento del debitore.

Nel caso in disamina, il Giudice ha rilevato che la società opponente aveva interesse all’accertamento dell’inefficacia della delibera impugnata, al fine di evitare il pericolo concreto di non recuperare, in tutto o in parte, il proprio credito atteso che il progetto di scissione parziale prevedeva il trasferimento a favore della società beneficiaria la maggior parte del cospicuo patrimonio immobiliare della società scissa e che la società beneficiaria oltre a non disporre di un proprio patrimonio (oltre quello ad essa trasferito con la scissione), risultava anche non operativa.

Inoltre, a nulla rileva il richiamo all’art. 2506 quater c.c. formulato da parte convenuta, in ordine alla responsabilità solidale tra la società scissa e quella beneficiaria, nei limiti del patrimonio netto trasferito o rimasto alla scissa, riguardo ai debiti assunti in precedenza dalla scissa, al fine di escludere la sussistenza dei presupposti dell’accoglimento dell’opposizione.

Al riguardo, secondo quanto chiarito dal Giudice di merito, tale responsabilità solidale non può escludere o ridurre il concreto pericolo che la scissione parziale leda le aspettative di recupero del credito della parte opponente allorquando non è stato dimostrato che tutti i beni trasferiti alla società beneficiaria abbiano un valore tale da soddisfare appieno il creditore.

Invero, la richiamata responsabilità solidale è stata introdotta dal legislatore quale ulteriore strumento di tutela dei creditori, ma non può escludere l’interesse a proporre l’opposizione, trattandosi di tutele differenti.

 Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il Tribunale ha accolto la domanda di parte attrice dichiarando l’inefficacia della deliberazione avente ad oggetto il progetto di scissione parziale e ha condannato la società scissa e quella beneficiaria al pagamento delle spese di giudizio.

PROCEDURA CIVILE: il mancato deposito del fascicolo di parte non è causa di rimessione sul ruolo

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

E’ onere della parte – ai sensi degli artt.72 e 74 delle disp. att. al C.P.C. – depositare in giudizio il proprio fascicolo con gli atti e i documenti di causa che pretende siano utilizzati come fonte di prova, ne consegue che, in caso di mancato deposito del fascicolo stesso, il Giudice non può rimettere la causa sul ruolo, per il relativo adempimento, ma deve pronunciare nel merito sulla base delle già acquisite risultanze istruttorie e degli atti riscontrabili nel fascicolo dell’altra parte e in quello d’ufficio

Così si è pronunciato il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – con sentenza n. 561/2016 del 08/02/2016 – in relazione all’onere gravante sulle parti in giudizio circa il deposito delle proprie produzioni all’interno del fascicolo d’ufficio.

Il Giudice decisore rilevato, dai verbali di causa, che il fascicolo di parte attorea veniva ritirato alla prima udienza per la comparizione delle parti e che il medesimo non veniva più depositato agli atti del giudizio, rigettava la domanda dichiarandola inammissibile.

La fattispecie che ci occupa attiene ad un caso di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione a norma della L. n. 990/69. Secondo quanto disposto dall’art.22 di tale legge, la proponibilità della domanda giudiziale è subordinata alla richiesta di risarcimento da inoltrarsi, in via stragiudiziale, all’assicuratore nonché al decorso di sessanta giorni da tale richiesta, il tutto al fine di attuare uno strumento deflattivo del contenzioso.

Orbene, il Tribunale, in fase decisoria, preso atto dell’omessa allegazione del fascicolo di parte attorea e della conseguente impossibilità di verificare l’assolvimento delle prescrizioni fissate dalla legge, in relazione alla procedibilità della domanda, ha rigettato la domanda ritenendo, tra l’altro, assorbita ogni altra eccezione e valutazione di merito.

La pronuncia, oltre a ribadire l’onere gravante sulle parti ai sensi degli artt.72 e 74 disp. att. c.p.c. – di depositare in giudizio il proprio fascicolo con gli atti e i documenti di causa che ritiene debbano essere valutati a supporto della propria domanda, fa proprio l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in fase di decisione, risulterebbe precluso al Giudice rimettere la causa sul ruolo per concedere il deposito del fascicolo di parte qualora sia mancante (Cass. civ., sez.I, 24.1.86, n°459; cfr. anche Cass. civ., sez.II, 28.1.87, n°791).

Pertanto, secondo quanto statuito nel provvedimento in esame: “il Giudice non può rimettere la causa sul ruolo, per il relativo adempimento, ma deve pronunciare nel merito sulla base delle già acquisite risultanze istruttorie e degli atti riscontrabili nel fascicolo dell’altra parte e in quello d’ufficio”.

Il Giudice di merito argomentando sul principio della disponibilità delle prove – di cui all’art 115 c.p.c. – ha ritenuto che l’obbligo delle parti di depositare il proprio fascicolo al momento del deposito della comparsa conclusionale ex art. 169 II co. c.p.c. ovverosia dopo il ritiro di esso in sede di rimessione della causa al Giudicante per la decisione, sia strettamente connesso a tale principio; per cui l’atteggiamento della parte che omette il deposito della documentazione, precedentemente ritirata, paleserebbe esclusivamente la scelta strategica di non servirsi più di essi ai fini della difesa.

Il codice di rito, inoltre, non prevede alcuna norma che autorizzerebbe e o comunque legittimerebbe il Giudice ad obbligare una parte a ridepositare la documentazione prodotta in precedenza e poi ritirata.

Da ciò ne deriverebbe che maturato il termine del deposito della comparsa conclusionale – di cui all’art. 190 c.p.c.-  il Giudice decisore sia obbligato a pronunciarsi nel merito essendo comunque precluso, alle parti, in questa fase processuale, il deposito dei fascicoli precedentemente ritirati.

Pertanto, il Tribunale ha dichiarato l’inammissibilità della domanda attorea compensando le spese di lite.

REVOCATORIA ORDINARIA esercitata dal curatore: presupposti dell’azione

Procedimento patrocinato da DE SIMONE LAW FIRM

Nella specifica ipotesi in cui l’azione revocatoria ordinaria sia esercitata dal curatore fallimentare, quest’ultimo, fermo restando l’onere di dimostrare la sussistenza del presupposto soggettivo, è tenuto a provare, sotto il profilo oggettivo, ad eccezione della fattispecie nella quale l’atto dispositivo sia stato intenzionalmente preordinato a pregiudicare il soddisfacimento di obbligazioni future, l’anteriorità dell’insorgenza dei crediti o di alcuni dei crediti ammessi al passivo rispetto al negozio giuridico che si assume pregiudizievole, l’entità dei tali crediti e il mutamento quantitativo e qualitativo subito dal patrimonio del debitore per effetto del compimento del medesimo, potendosi, solo con l’acquisizione di tali dati, verificare in concreto, attraverso il loro raffronto, se il patto in questione abbia effettivamente leso le ragioni creditorie.

Questo il principio espresso dal Tribunale di Salerno, dott. Alessandro Brancaccio, con la sentenza pubblicata il 07 gennaio 2016, n. 11, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ordinaria proposto da una curatela fallimentare.

Nel fattispecie in esame, il fallimento della società in liquidazione evocava in giudizio una SOCIETÀ S.R.L. per ottenere la dichiarazione di inefficacia, ai sensi degli artt. 2901 c. c. e 66 r.d. n. 267/1942, di una scrittura privata con cui la società sottoposta al procedimento concorsuale aveva ceduto il contratto di locazione finanziaria stipulato con una società di LEASING.

Nel costituirsi in giudizio, la SOCIETÀ S.R.L. e la società di LEASING contestavano la fondatezza della domanda, per insussistenza dei presupposti per la proposizione della revocatoria ordinaria.

Il Tribunale di Salerno, muove il proprio esame, illustrando analiticamente i presupposti soggettivi e oggettivi per l’esperimento di una azione revocatoria ordinaria.

Viene evidenziato, pertanto, come in una prospettiva di carattere generale, ai sensi dell’art. 2901, comma 1, c. c., il creditore, anche se il credito é soggetto a condizione o a termine, possa domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, quando concorrono le seguenti condizioni:

1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al file di pregiudicarne il soddisfacimento;

2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.

Il Tribunale precisa che l’art. 2901, comma 1, c.c., ha, accolto una nozione di credito in senso lato, comprensiva della ragione o dell’aspettativa giuridicamente rilevante, non richiedendo i normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità previsti dall’art. 474, comma 1, c.p.c„ per il titolo esecutivo.

Ai fini della proposizione e dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, è necessario, poi, dare prova della contestuale sussistenza di due requisiti essenziali: sotto il profilo oggettivo l’eventus damni ossia che l’atto dispositivo compiuto arrechi un vero e proprio pregiudizio al creditore, e l’altro di tipo soggettivo, sostanziandosi questo nella scientia damni del debitore che dolosamente compie l’atto dispositivo essendo cosciente del fatto che tale atto arrechi un danno al creditore.

Sul punto il Tribunale compie due precisazioni.

Sotto il profilo oggettivo, viene precisato come non sia necessario dimostrare, la totale compromissione della consistenza dei beni del debitore, essendo sufficiente il compimento di un atto che renda più incerto o difficile il soddisfacimento del credito, nel senso che l’eventus damni può consistere non solo in una variazione quantitativa del suo patrimonio, ma anche in una modificazione qualitativa del medesimo (cfr., ex plurimis, Cass. 29 marzo 2007, n. 7767; Cass. 9 febbraio 2012, n. 1896; Cass. 3 febbraio 2015, n. 1902).

Sotto il profilo soggettivo, quando l’atto dispositivo sia successivo al sorgere del credito, unica condizione per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, è la conoscenza che il debitore abbia dei pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie, nonché, per gli atti a titolo oneroso, l’analoga consapevolezza in capo al terzo, potendo la prova della sussistenza della scientia damni essere fornita tramite presunzioni e, dunque, fondarsi anche su elementi indiziari, purché gravi, precisi e concordanti, ai sensi dell’art. 2729, comma 1, cod. civ. (cfr., ex plurimis, Cass. 5 giugno 2000, n. 7452; Cass. 17 agosto 2011, n. 17327; Cass. 30 dicembre 2014, n. 27546); quando, invece, l’atto dispositivo sia antecedente al sorgere del credito, la condizione per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria è la sussistenza del consilium fraudis del debitore nonché, per gli atti a titolo oneroso, della partecipazione fraudis del terzo, vale a dire della conoscenza, da parte di quest’ultimo, della dolosa preordinazione del negozio traslativo rispetto alle obbligazioni future, potendo, anche in tal caso, la prova dell’esistenza degli elementi soggettivi essere fornita tramite presunzioni, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata (cfr., ex ceteris, Cass. 21 settembre 2001, n. 11916; Cass. 9 maggio 2008, n. 11577; Cass. 7 agosto 2008, n. 24757).

Nel caso in cui l’azione revocatoria sia esercitata dal curatore, il Tribunale di Salerno, a questo punto, sottolinea  come quest’ultimo, fermo restando l’onere di dimostrare la sussistenza del presupposto soggettivo, sia tenuto a provare: a) l’anteriorità dell’insorgenza dei crediti o di alcuni dei crediti ammessi al passivo rispetto al negozio giuridico che si assume pregiudizievole, b) l’entità dei tali crediti e c) il mutamento quantitativo e qualitativo subito dal patrimonio del debitore per effetto del compimento del medesimo; potendosi, solo con l’acquisizione di tali dati, verificare in concreto, attraverso il loro raffronto, se il patto in questione abbia effettivamente leso le ragioni creditorie.

Invero, soltanto se dalla valutazione complessiva e rigorosa di tutti e tre questi elementi dovesse emergere che, in conseguenza dell’atto pregiudizievole, sia divenuta oggettivamente più difficoltosa l’esazione del credito, in misura eccedente la normale e fisiologica esposizione di un imprenditore nei confronti dei propri creditori, potrà ritenersi dimostrata la ricorrenza dei presupposti oggettivi per l’accoglimento della domanda di cui agli artt. 2901 cod. civ. e 66 r.d. n. 267/1942.

Nel caso di specie, il Tribunale ha rilevato l’insussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi.

In particolare, sotto il profilo oggettivo, ad avviso del giudice campano, il fallimento non ha dimostrato né la preesistenza dei crediti ammessi al passivo alla stipulazione della cessione del contratto di locazione finanziaria di cui invoca la declaratoria di inefficacia, né la dolosa preordinazione dell’atto rispetto ai crediti successivamente sorti, né l’ammontare dei medesimi, né l’effettivo decremento della consistenza patrimoniale della società a seguito del predetto negozio giuridico e la consequenziale inidoneità dei beni residui a garantire il soddisfacimento delle pretese creditorie azionate in sede concorsuale, né, sotto l’aspetto soggettivo, la sussistenza della scientia damni in capo alla società debitrice, alla s.r.l. e alla banca.

Ed infatti -rileva il Tribunale- il Fallimento si sarebbe limitato ad asserire che la cessione del contratto di locazione finanziaria era avvenuta ad un prezzo incongruo, sicchè tale circostanza non è idonea nel caso di azione revocatoria esperita ex art. 2901 c.c. ad integrare una prova sufficiente a dimostrare la compromissione del patrimonio.

Sul punto, il giudice ha affermato che: “l’eventuale sproporzione tra il valore del contratto ceduto e il prezzo corrisposto dalla cessionaria, ove superiore alla misura di un quarto, avrebbe assunto dirimente rilevanza qualora il fallimento avesse promosso l’azione revocatoria prevista dall’art. 67, comma 1, n. 1, r.d. n. 267/1942, ma, nell’ambito del giudizio di cui all’art. 2901 cod. civ, è inidonea a dimostrare, ex se, in mancanza di ulteriori riscontri oggettivi, come l’insussistenza di altri beni aziendali suscettibili di escussione, l’intervenuta compromissione del patrimonio della società debitrice”.

Ritenuta insufficiente la prova data dal curatore e attesa la non configurabilità di alcun parametro di riferimento idoneo per valutare in concreto l’incongruità del prezzo pagato rispetto al valore della posizione giuridica trasferita, e la reale compromissione della consistenza patrimoniale della cedente, il Tribunale ha rigettato la domanda del fallimento, condannando al pagamento delle spese processuali.