OPPOSIZIONE ALLA SCISSIONE: funzione e natura

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

 Il rimedio della opposizione al progetto di scissione parziale – a contenuto “lato sensu” cautelare – ha la funzione di assicurare il permanere della garanzia generica sul patrimonio del debitore, prevista dall’art. 2740 c.c., ed ha natura contenziosa in quanto diretto ad accertare l’insufficienza patrimoniale della società che risulta dalla fusione o scissione quale debitrice in luogo di quella originaria.

La responsabilità solidale non può escludere o ridurre il concreto pericolo che la scissione parziale leda le aspettative di recupero del credito della parte opponente allorquando non è stato dimostrato che tutti i beni trasferiti alla società beneficiaria abbiano un valore tale da soddisfare appieno il creditore.

Questo è il principio espresso dal Tribunale di Napoli, Pres. Buttafoco, Rel Caiazzo nella sentenza del 19 febbraio 2016, n. 2224.

Nella fattispecie in esame, una Banca, affermando di essere creditrice, nei confronti di una società, dell’importo complessivo di circa euro 3.700.000, di cui circa 3.200.000,00 garantito da ipoteca iscritta su beni immobili, trasferiti ad un’altra società attraverso un progetto di scissione parziale, proponeva opposizione alla detta scissione chiedendo che fosse dichiarata l’inefficacia della stessa operazione straordinaria trattandosi di atto che escludeva o riduceva fortemente le possibilità di recuperare il proprio credito.

Il Tribunale, accogliendo la domanda della banca opponente, ha chiarito che il rimedio della opposizione alla scissione ha la funzione di assicurare il permanere della garanzia generica sul patrimonio del debitore ed ha natura contenziosa in quanto diretto ad accertare l’insufficienza patrimoniale della società che risulta dalla fusione o scissione quale debitrice in luogo di quella originaria.

Sotto questo profilo, quindi, l’opposizione viene inquadrata nei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale generica, come rimedio volto ad impedire l’esecuzione di un atto dispositivo del patrimonio del debitore e a tutelare l’interesse dei creditori alla soddisfazione coattiva del credito, nonostante l’inadempimento del debitore.

Nel caso in disamina, il Giudice ha rilevato che la società opponente aveva interesse all’accertamento dell’inefficacia della delibera impugnata, al fine di evitare il pericolo concreto di non recuperare, in tutto o in parte, il proprio credito atteso che il progetto di scissione parziale prevedeva il trasferimento a favore della società beneficiaria la maggior parte del cospicuo patrimonio immobiliare della società scissa e che la società beneficiaria oltre a non disporre di un proprio patrimonio (oltre quello ad essa trasferito con la scissione), risultava anche non operativa.

Inoltre, a nulla rileva il richiamo all’art. 2506 quater c.c. formulato da parte convenuta, in ordine alla responsabilità solidale tra la società scissa e quella beneficiaria, nei limiti del patrimonio netto trasferito o rimasto alla scissa, riguardo ai debiti assunti in precedenza dalla scissa, al fine di escludere la sussistenza dei presupposti dell’accoglimento dell’opposizione.

Al riguardo, secondo quanto chiarito dal Giudice di merito, tale responsabilità solidale non può escludere o ridurre il concreto pericolo che la scissione parziale leda le aspettative di recupero del credito della parte opponente allorquando non è stato dimostrato che tutti i beni trasferiti alla società beneficiaria abbiano un valore tale da soddisfare appieno il creditore.

Invero, la richiamata responsabilità solidale è stata introdotta dal legislatore quale ulteriore strumento di tutela dei creditori, ma non può escludere l’interesse a proporre l’opposizione, trattandosi di tutele differenti.

 Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il Tribunale ha accolto la domanda di parte attrice dichiarando l’inefficacia della deliberazione avente ad oggetto il progetto di scissione parziale e ha condannato la società scissa e quella beneficiaria al pagamento delle spese di giudizio.

PROCEDURA CIVILE: il mancato deposito del fascicolo di parte non è causa di rimessione sul ruolo

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

E’ onere della parte – ai sensi degli artt.72 e 74 delle disp. att. al C.P.C. – depositare in giudizio il proprio fascicolo con gli atti e i documenti di causa che pretende siano utilizzati come fonte di prova, ne consegue che, in caso di mancato deposito del fascicolo stesso, il Giudice non può rimettere la causa sul ruolo, per il relativo adempimento, ma deve pronunciare nel merito sulla base delle già acquisite risultanze istruttorie e degli atti riscontrabili nel fascicolo dell’altra parte e in quello d’ufficio

Così si è pronunciato il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – con sentenza n. 561/2016 del 08/02/2016 – in relazione all’onere gravante sulle parti in giudizio circa il deposito delle proprie produzioni all’interno del fascicolo d’ufficio.

Il Giudice decisore rilevato, dai verbali di causa, che il fascicolo di parte attorea veniva ritirato alla prima udienza per la comparizione delle parti e che il medesimo non veniva più depositato agli atti del giudizio, rigettava la domanda dichiarandola inammissibile.

La fattispecie che ci occupa attiene ad un caso di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione a norma della L. n. 990/69. Secondo quanto disposto dall’art.22 di tale legge, la proponibilità della domanda giudiziale è subordinata alla richiesta di risarcimento da inoltrarsi, in via stragiudiziale, all’assicuratore nonché al decorso di sessanta giorni da tale richiesta, il tutto al fine di attuare uno strumento deflattivo del contenzioso.

Orbene, il Tribunale, in fase decisoria, preso atto dell’omessa allegazione del fascicolo di parte attorea e della conseguente impossibilità di verificare l’assolvimento delle prescrizioni fissate dalla legge, in relazione alla procedibilità della domanda, ha rigettato la domanda ritenendo, tra l’altro, assorbita ogni altra eccezione e valutazione di merito.

La pronuncia, oltre a ribadire l’onere gravante sulle parti ai sensi degli artt.72 e 74 disp. att. c.p.c. – di depositare in giudizio il proprio fascicolo con gli atti e i documenti di causa che ritiene debbano essere valutati a supporto della propria domanda, fa proprio l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in fase di decisione, risulterebbe precluso al Giudice rimettere la causa sul ruolo per concedere il deposito del fascicolo di parte qualora sia mancante (Cass. civ., sez.I, 24.1.86, n°459; cfr. anche Cass. civ., sez.II, 28.1.87, n°791).

Pertanto, secondo quanto statuito nel provvedimento in esame: “il Giudice non può rimettere la causa sul ruolo, per il relativo adempimento, ma deve pronunciare nel merito sulla base delle già acquisite risultanze istruttorie e degli atti riscontrabili nel fascicolo dell’altra parte e in quello d’ufficio”.

Il Giudice di merito argomentando sul principio della disponibilità delle prove – di cui all’art 115 c.p.c. – ha ritenuto che l’obbligo delle parti di depositare il proprio fascicolo al momento del deposito della comparsa conclusionale ex art. 169 II co. c.p.c. ovverosia dopo il ritiro di esso in sede di rimessione della causa al Giudicante per la decisione, sia strettamente connesso a tale principio; per cui l’atteggiamento della parte che omette il deposito della documentazione, precedentemente ritirata, paleserebbe esclusivamente la scelta strategica di non servirsi più di essi ai fini della difesa.

Il codice di rito, inoltre, non prevede alcuna norma che autorizzerebbe e o comunque legittimerebbe il Giudice ad obbligare una parte a ridepositare la documentazione prodotta in precedenza e poi ritirata.

Da ciò ne deriverebbe che maturato il termine del deposito della comparsa conclusionale – di cui all’art. 190 c.p.c.-  il Giudice decisore sia obbligato a pronunciarsi nel merito essendo comunque precluso, alle parti, in questa fase processuale, il deposito dei fascicoli precedentemente ritirati.

Pertanto, il Tribunale ha dichiarato l’inammissibilità della domanda attorea compensando le spese di lite.

REVOCATORIA ORDINARIA esercitata dal curatore: presupposti dell’azione

Procedimento patrocinato da DE SIMONE LAW FIRM

Nella specifica ipotesi in cui l’azione revocatoria ordinaria sia esercitata dal curatore fallimentare, quest’ultimo, fermo restando l’onere di dimostrare la sussistenza del presupposto soggettivo, è tenuto a provare, sotto il profilo oggettivo, ad eccezione della fattispecie nella quale l’atto dispositivo sia stato intenzionalmente preordinato a pregiudicare il soddisfacimento di obbligazioni future, l’anteriorità dell’insorgenza dei crediti o di alcuni dei crediti ammessi al passivo rispetto al negozio giuridico che si assume pregiudizievole, l’entità dei tali crediti e il mutamento quantitativo e qualitativo subito dal patrimonio del debitore per effetto del compimento del medesimo, potendosi, solo con l’acquisizione di tali dati, verificare in concreto, attraverso il loro raffronto, se il patto in questione abbia effettivamente leso le ragioni creditorie.

Questo il principio espresso dal Tribunale di Salerno, dott. Alessandro Brancaccio, con la sentenza pubblicata il 07 gennaio 2016, n. 11, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ordinaria proposto da una curatela fallimentare.

Nel fattispecie in esame, il fallimento della società in liquidazione evocava in giudizio una SOCIETÀ S.R.L. per ottenere la dichiarazione di inefficacia, ai sensi degli artt. 2901 c. c. e 66 r.d. n. 267/1942, di una scrittura privata con cui la società sottoposta al procedimento concorsuale aveva ceduto il contratto di locazione finanziaria stipulato con una società di LEASING.

Nel costituirsi in giudizio, la SOCIETÀ S.R.L. e la società di LEASING contestavano la fondatezza della domanda, per insussistenza dei presupposti per la proposizione della revocatoria ordinaria.

Il Tribunale di Salerno, muove il proprio esame, illustrando analiticamente i presupposti soggettivi e oggettivi per l’esperimento di una azione revocatoria ordinaria.

Viene evidenziato, pertanto, come in una prospettiva di carattere generale, ai sensi dell’art. 2901, comma 1, c. c., il creditore, anche se il credito é soggetto a condizione o a termine, possa domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, quando concorrono le seguenti condizioni:

1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al file di pregiudicarne il soddisfacimento;

2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.

Il Tribunale precisa che l’art. 2901, comma 1, c.c., ha, accolto una nozione di credito in senso lato, comprensiva della ragione o dell’aspettativa giuridicamente rilevante, non richiedendo i normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità previsti dall’art. 474, comma 1, c.p.c„ per il titolo esecutivo.

Ai fini della proposizione e dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, è necessario, poi, dare prova della contestuale sussistenza di due requisiti essenziali: sotto il profilo oggettivo l’eventus damni ossia che l’atto dispositivo compiuto arrechi un vero e proprio pregiudizio al creditore, e l’altro di tipo soggettivo, sostanziandosi questo nella scientia damni del debitore che dolosamente compie l’atto dispositivo essendo cosciente del fatto che tale atto arrechi un danno al creditore.

Sul punto il Tribunale compie due precisazioni.

Sotto il profilo oggettivo, viene precisato come non sia necessario dimostrare, la totale compromissione della consistenza dei beni del debitore, essendo sufficiente il compimento di un atto che renda più incerto o difficile il soddisfacimento del credito, nel senso che l’eventus damni può consistere non solo in una variazione quantitativa del suo patrimonio, ma anche in una modificazione qualitativa del medesimo (cfr., ex plurimis, Cass. 29 marzo 2007, n. 7767; Cass. 9 febbraio 2012, n. 1896; Cass. 3 febbraio 2015, n. 1902).

Sotto il profilo soggettivo, quando l’atto dispositivo sia successivo al sorgere del credito, unica condizione per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, è la conoscenza che il debitore abbia dei pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie, nonché, per gli atti a titolo oneroso, l’analoga consapevolezza in capo al terzo, potendo la prova della sussistenza della scientia damni essere fornita tramite presunzioni e, dunque, fondarsi anche su elementi indiziari, purché gravi, precisi e concordanti, ai sensi dell’art. 2729, comma 1, cod. civ. (cfr., ex plurimis, Cass. 5 giugno 2000, n. 7452; Cass. 17 agosto 2011, n. 17327; Cass. 30 dicembre 2014, n. 27546); quando, invece, l’atto dispositivo sia antecedente al sorgere del credito, la condizione per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria è la sussistenza del consilium fraudis del debitore nonché, per gli atti a titolo oneroso, della partecipazione fraudis del terzo, vale a dire della conoscenza, da parte di quest’ultimo, della dolosa preordinazione del negozio traslativo rispetto alle obbligazioni future, potendo, anche in tal caso, la prova dell’esistenza degli elementi soggettivi essere fornita tramite presunzioni, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata (cfr., ex ceteris, Cass. 21 settembre 2001, n. 11916; Cass. 9 maggio 2008, n. 11577; Cass. 7 agosto 2008, n. 24757).

Nel caso in cui l’azione revocatoria sia esercitata dal curatore, il Tribunale di Salerno, a questo punto, sottolinea  come quest’ultimo, fermo restando l’onere di dimostrare la sussistenza del presupposto soggettivo, sia tenuto a provare: a) l’anteriorità dell’insorgenza dei crediti o di alcuni dei crediti ammessi al passivo rispetto al negozio giuridico che si assume pregiudizievole, b) l’entità dei tali crediti e c) il mutamento quantitativo e qualitativo subito dal patrimonio del debitore per effetto del compimento del medesimo; potendosi, solo con l’acquisizione di tali dati, verificare in concreto, attraverso il loro raffronto, se il patto in questione abbia effettivamente leso le ragioni creditorie.

Invero, soltanto se dalla valutazione complessiva e rigorosa di tutti e tre questi elementi dovesse emergere che, in conseguenza dell’atto pregiudizievole, sia divenuta oggettivamente più difficoltosa l’esazione del credito, in misura eccedente la normale e fisiologica esposizione di un imprenditore nei confronti dei propri creditori, potrà ritenersi dimostrata la ricorrenza dei presupposti oggettivi per l’accoglimento della domanda di cui agli artt. 2901 cod. civ. e 66 r.d. n. 267/1942.

Nel caso di specie, il Tribunale ha rilevato l’insussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi.

In particolare, sotto il profilo oggettivo, ad avviso del giudice campano, il fallimento non ha dimostrato né la preesistenza dei crediti ammessi al passivo alla stipulazione della cessione del contratto di locazione finanziaria di cui invoca la declaratoria di inefficacia, né la dolosa preordinazione dell’atto rispetto ai crediti successivamente sorti, né l’ammontare dei medesimi, né l’effettivo decremento della consistenza patrimoniale della società a seguito del predetto negozio giuridico e la consequenziale inidoneità dei beni residui a garantire il soddisfacimento delle pretese creditorie azionate in sede concorsuale, né, sotto l’aspetto soggettivo, la sussistenza della scientia damni in capo alla società debitrice, alla s.r.l. e alla banca.

Ed infatti -rileva il Tribunale- il Fallimento si sarebbe limitato ad asserire che la cessione del contratto di locazione finanziaria era avvenuta ad un prezzo incongruo, sicchè tale circostanza non è idonea nel caso di azione revocatoria esperita ex art. 2901 c.c. ad integrare una prova sufficiente a dimostrare la compromissione del patrimonio.

Sul punto, il giudice ha affermato che: “l’eventuale sproporzione tra il valore del contratto ceduto e il prezzo corrisposto dalla cessionaria, ove superiore alla misura di un quarto, avrebbe assunto dirimente rilevanza qualora il fallimento avesse promosso l’azione revocatoria prevista dall’art. 67, comma 1, n. 1, r.d. n. 267/1942, ma, nell’ambito del giudizio di cui all’art. 2901 cod. civ, è inidonea a dimostrare, ex se, in mancanza di ulteriori riscontri oggettivi, come l’insussistenza di altri beni aziendali suscettibili di escussione, l’intervenuta compromissione del patrimonio della società debitrice”.

Ritenuta insufficiente la prova data dal curatore e attesa la non configurabilità di alcun parametro di riferimento idoneo per valutare in concreto l’incongruità del prezzo pagato rispetto al valore della posizione giuridica trasferita, e la reale compromissione della consistenza patrimoniale della cedente, il Tribunale ha rigettato la domanda del fallimento, condannando al pagamento delle spese processuali.

RESPONSABILITÀ NOTAIO: le conseguenze per inesattezza dei dati anagrafici per i mutui ipotecari

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

 L’ipoteca con dati errati tali da indurre incertezza sull’identità della persona, di cui ad un contratto di mutuo, non può essere oggetto di iscrizione suppletiva o in rettifica, nell’ipotesi di vendita del bene difettosamente ipotecato, essendo necessaria la nascita di una distinta iscrizione ipotecaria, munita di nuovo grado che costituisce una nuova iscrizione.

Questi è il principio enunciato dalla Corte d’Appello di Napoli, Pres. Giordano- Rel. Mondo, con la sentenza del 12.11.2014, n. 4503.

Nella fattispecie in disamina, gli acquirenti di un immobile concesso a garanzia di un mutuo, su cui era stato commesso un errore di iscrizione della ipoteca da parte del notaio, relativo ai dati anagrafici del soggetto titolare del bene immobile, proponevano appello alla sentenza di primo grado con cui il giudice di prime cure:

– accoglieva l’azione revocatoria proposta dal notaio nei confronti del terzo datore di ipoteca e degli appellanti, dichiarando inefficaci gli atti di compravendita in contestazione atteso che il terzo, approfittando della inesattezza contenuta nel contratto di mutuo, avesse compiuto atto di alienazione dell’immobile, a favore di suoi parenti conviventi, con l’intento di porsi in una situazione di totale incapienza;

– accoglieva la domanda proposta dal notaio nei confronti del terzo datore di ipoteca e dei coniugi mutuatari, disponendo la rettifica dell’iscrizione ipotecaria da attuarsi nelle forme della iscrizione suppletiva o della iscrizione in rettifica con indicazione delle corrette generalità del terzo datore di ipoteca;

– accoglieva, per quanto di ragione, la domanda proposta dalla Banca, condannando il convenuto notaio al pagamento della somma liquidata equitativamente di € 10.000,00 a titolo di risarcimento del danno;

– accoglieva, altresì, la domanda proposta dal convenuto notaio nei confronti dell’assicuratrice chiamata in causa, condannandola a manlevare il chiamante dal pagamento della somma di cui sopra, dedotto l’importo della franchigia ridotta, pari ad € 5,000,00, nonché al pagamento delle spese processuali dovute dall’assicurato notaio;

– condannava il convenuto alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla Banca attrice; condannava i chiamati in causa, ad eccezione dell’assicurazione, alla rifusione del spese processuali sostenute dal convenuto; dichiarando interamente compensate le spese processuali nel rapporto fra il convenuto e la assicuratrice chiamata in causa.

La cessionaria della Banca si costituiva, nella detta qualità, resistendo all’appello principale e spiegando appello incidentale con il quale, impugnando il capo della sentenza che ha quantificato il danno subito dalla banca, chiedeva di accertare e dichiarare che, per effetto dell’errore in cui era incorso il notaio, l’ipoteca iscritta in danno del terzo datore di ipoteca fosse priva di alcun effetto giuridico e che, pertanto, la banca, a seguito dell’errore, ha diritto di ottenere il pagamento, da parte del convenuto notaio, dell’importo di euro 51.645,69, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Si costituivano, altresì, le controparti appellate che proponevano, a loro volta, appello incidentale ad eccezione della compagnia di assicurazione.

Nel merito, il Tribunale aveva riconosciuto la legittimazione del notaio a surrogarsi nella posizione di credito vantata dalla Banca verso i mutuatari ed il terzo datore di ipoteca per scongiurare il pregiudizio comunque inferto al diritto della stessa, ancora in corso di giudiziale accertamento. Ciò in virtù del consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria, non è necessario che il creditore sia titolare di un credito liquido ed esigibile, essendo sufficiente una semplice aspettativa che non si rilevi prima facie infondata e che possa valutarsi come probabile, anche se non definitivamente accertata.

La Corte di Appello, nel riformare la sentenza di primo grado in senso favorevole all’istituto di credito e contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, ha osservato che quest’ultimo ha errato nell’attribuire effetti reali alla azione revocatoria, poiché il ripristino della garanzia ipotecaria invocata in virtù dell’iscrizione suppletiva o in rettifica non è assistito dalla declaratoria di inefficacia dell’atto di alienazione del bene.

Invero, l’effetto della revocatoria non è di travolgere l’atto di alienazione, ma di determinarne l’inefficacia nei confronti del creditore, mentre l’iscrizione suppletiva comporta come conseguenza la nascita di distinta iscrizione ipotecaria munita di nuovo grado.

Dunque, proprio in ragione della natura dell’azione revocatoria, la possibilità di sottoporre ad esecuzione i beni oggetto di alienazione sussiste solo in capo al creditore che ha ottenuto la declaratoria di inefficacia dell’atto ovverosia, nel caso di specie, al notaio e non già alla banca mutuante che, in conseguenza dell’errore nella iscrizione dell’ipoteca, non vanta alcun titolo nei confronti dei mutuatari e del terzo datore di ipoteca e non è tutelata dall’ordine di rettifica ineseguibile su un bene che non è più nel patrimonio dell’alienante.

Ne consegue che l’accoglimento della azione revocatoria non esclude il verificarsi del danno derivante dall’omissione o inesattezza dei dati anagrafici risultanti dal titolo iscritto da ipoteca, posto che l’errore commesso dal notaio ha comportato la definitiva perdita dell’ipoteca da parte della banca.

La Corte adita ha, quindi, accolto l’appello incidentale proposto dalla Banca, per il tramite della società cessionaria, ed in riforma della sentenza impugnata, ha riconosciuto alla stessa la somma di euro 51.645,69, mentre ha rigettato l’appello principale proposto dagli eredi del terzo datore di ipoteca e quelli incidentali delle controparti.

REVOCATORIA ORDINARIA: l’adeguatezza del prezzo è indice di correttezza dell’operazione di leasing

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

 Ai fini della revocatoria ordinaria ex art. 2901 cc di un contratto di compravendita immobiliare, non sussiste la scientia damni in capo agli acquirenti, in presenza di due elementi: l’adeguatezza del prezzo di vendita del bene rispetto a quello di mercato e la presenza di un terzo acquirente competente in materia immobiliare atteso che gli stessi costituiscono una rassicurazione sulla piena correttezza della complessiva operazione di vendita.

Questo il principio espresso dalla Corte dei Conti, sez. Terza, Pres. F. Di Grazia – Rel. E. Musumeci, con la sentenza pubblicata il 15 febbraio 2016, n. 32, resa in un giudizio di appello proposto da una SOCIETÀ LEASING avverso la sentenza resa in un giudizio di revocatoria ordinaria.

In particolare, una SOCIETÀ di LEASING ed una società avevano stipulato un contratto di compravendita, nell’ambito di un contratto di leasing, che veniva dichiarato inefficace, a seguito di una revocatoria ordinaria proposta dalla Procura regionale, dalla Corte dei Conti per la Campania.

Il Sostituto Procuratore Generale, nel giudizio di primo grado, aveva sostenuto l’esistenza della scientia damni in capo all’acquirente (SOCIETÀ LEASING) esclusivamente da tre articoli di stampa, da un servizio televisivo risalente a quasi due anni prima che venisse stipulato il preliminare di vendita e dalla notorietà presunta che su internet avrebbe ottenuto la vicenda del finanziamento.

La Corte dei Conti, in grado di appello, dava una diversa valutazione ai fatti di causa, rilevando che “certamente non possa reputarsi dimostrata la scientia damni in capo ai terzi contraenti”, sia perché il prezzo di vendita del bene risultava adeguato a quello di mercato e, da ciò, non si poteva sospettare che quella vendita potesse rivelarsi idonea a pregiudicare le ragioni creditorie, sia perché la presenza di un terzo acquirente, come una SOCIETÀ LEASING, competente in materia immobiliare, costituiva un’ulteriore rassicurazione sulla correttezza della complessiva operazione.

Inoltre, tale consapevolezza non poteva reputarsi insita nella qualità di operatore professionale rivestita da SOCIETÀ LEASING, i cui accertamenti patrimoniali, prodromici alla complessiva operazione immobiliare, è ragionevole che abbiano riguardato essenzialmente il soggetto finanziato mediante il contratto di leasing connesso alla compravendita medesima, piuttosto che la società fornitrice che era parte venditrice.

La Corte dei Conti ha, pertanto, ritenuto che le circostanze in virtù delle quali la Procura regionale aveva fatto derivare la scientia damni in capo al terzo acquirente SOCIETÀ LEASING non potevano costituire elementi gravi, precisi e concordanti tali da dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo della consapevolezza del pregiudizio che l’atto era in grado di produrre al creditore.

Per tale motivo, la Corte dei Conti ha concluso accogliendo l’appello proposto dalla SOCIETÀ LEASING dichiarando non revocabile il contratto di compravendita immobiliare, anche con condanna della procura al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio.

REVOCATORIA FALLIMENTARE: non costituisce mezzo anormale di pagamento l’escussione di polizza costituita in pegno

Procedimento patrocinato da DE SIMONE LAW FIRM

Non rientra tra le ipotesi di mezzo anormale di pagamento, di cui all’art. 67 comma 1, n. 2 lf, l’escussione anticipata della polizza costituita in pegno a favore dell’Istituto di Credito, non potendo sostenersi che l’escussione abbia realizzato una modalità anomala di estinzione del debito in conto corrente, rappresentando, invece, un modo di estinzione del debito, sempre liquido ed esigibile, rientrante nella normalità dei rapporti tra le parti ed in linea con la causa tipica del contratto di pegno.

Questo il principio affermato dal Tribunale di Nola, Giudice dott.ssa Giuseppa D’Inverno nella sentenza n. 497/2016 pubblicata il 17.02.2016, nell’ambito di un giudizio di revocatoria ex art. 67 lf.

In particolare la curatela ha proposto azione di inefficacia ex art. 67 comma 1, n. 2 lf, nei confronti di un Istituto di Credito, relativamente all’operazione di riscatto totale di una polizza vita, esercitato dal creditore pignoratizio Banca, e di successivo utilizzo del controvalore liquidato per la riduzione della debitoria presente sul c/c ordinario accesso dalla fallita, sul presupposto della anomalia di tale pagamento.

Si è costituito l’Istituto sollevando una pluralità di eccezioni ed, in particolare, l’infondatezza della domanda, considerata l’assenza di qualsivoglia anomalia nel pagamento,  trattandosi della  escussione di una garanzia legittimamente concessa.

Il Tribunale di Nola, nel motivare l’infondatezza della domanda, rileva come, nel caso di specie,  la possibilità di riscatto anticipato fosse prevista dall’atto di pegno, ed al contempo come non possa sostenersi che l’escussione abbia realizzato una modalità anomala di estinzione del debito in conto corrente, rappresentando invece – come affermato dalla convenuta- un modo di estinzione del debito, sempre liquido ed esigibile, rientrante nella normalità dei rapporti tra le parti ed in linea con la causa tipica del contratto di pegno.

 Sul punto, viene richiamata anche la giurisprudenza di legittimità e di merito, conforme all’adottato orientamento, allorquando afferma che “In tema di revocatoria fallimentare, la rimessa in conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno ormai consolidatosi in favore della stessa banca è revocabile, ai sensi dell’art. 67 (comma 2)della legge fall., non assumendo alcun rilievo la circostanza che il ricavato della vendita sia destinato a soddisfare un credito privilegiato, in quanto l'”eventus damni” deve considerarsi “in re ipsa“, consistendo nella lesione della “par condicio creditorum” ricollegabile all’uscita del bene dalla massa in forza dell’atto dispositivo, e non potendosi escludere “a priori” il pregiudizio delle ragioni di altri creditori privilegiati, insinuatisi in seguito al passivo” (così Cass. civ., sez. I, 26 febbraio 2010, n. 4785; Trib. Napoli, 11.11.2011, in www.iusletter.com ) .

Sulla base di tale corretto iter motivazionale, il Tribunale di Nola ha rigettato la domanda proposta dalla curatela con condanna al pagamento delle spese di lite.

FIDEIUSSIONE OMNIBUS: onere della prova dell’adempimento a carico del debitore

Procedimento patrocinato da De Simone Law Firm

Nei contratti di fideiussione omnibus o c.d. “a prima richiesta” il debitore, per liberarsi dell’obbligazione, deve provare o l’adempimento della stessa ovvero, specificatamente, che gli interessi passivi non sono stati correttamente conteggiati; mentre, il garante che vuole sottrarsi al pagamento deve dimostrare la nullità del contratto garantito o l’illiceità della sua causa mediante una prova pronta e liquida.  

Questi sono i principi sanciti dal Tribunale di S.M.C.V., Giudice Concetta Serino, con la sentenza del 04 febbraio 2016, n. 519.

Nel caso di specie, debitore e fideiussore proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca in relazione al credito vantato nei confronti della società debitrice ed emesso anche nei confronti del fideiussore.

A fondamento delle proprie ragioni, gli attori lamentavano l’assenza del titolo fatto valere e dei presupposti, da parte dell’opposta, ad agire in sede monitoria, l’invalidità e l’inefficacia della fideiussione e l’adempimento parziale del debito. Pertanto, chiedevano l’accertamento e la dichiarazione di nullità degli atti posti a base dell’avverso decreto, del provvedimento monitorio per effetto dei pagamenti effettuati dagli opponenti, nonché della fideiussione ex adverso invocata per mancanza di data certa, con la conseguente nullità dell’impugnato decreto e revoca dello stesso nei confronti dei soggetti pretesi garanti.

Il Tribunale, rigettando la pretesa opposizione, ha rilevato che il contratto di fideiussione stipulato dagli opponenti fosse da ricondurre alla fattispecie del contratto autonomo di garanzia o c.d. “a prima richiesta” e non già a quella della fideiussione codicistica, atteso che nell’art. 7 del contratto in oggetto era stato stabilito che il fideiussore si impegnava a pagare a semplice richiesta quanto dovuto per capitale e interessi.

Orbene, mentre il fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale obbligandosi direttamente ad adempiere, il garante si obbliga piuttosto a tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del debitore pertanto, caratteristica della fattispecie in oggetto è l’assenza, quindi, dell’elemento dell’accessorietà della garanzia rispetto all’obbligazione principale.

Il contratto autonomo di garanzia è, in tale ottica, espressione dell’autonomia negoziale ex art. 1322 cod. civ.. Ne consegue, pertanto, che il garante non può opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, salva la facoltà di eccepire la mancanza di causa ovvero l’avvenuto soddisfacimento del creditore (cfr. Cass. Civ. 2464/2004 cit.).

Inoltre, il creditore che intenda escutere una garanzia autonoma con clausola di pagamento “a prima richiesta” non ha l’onere di provare l’inadempimento del debitore: è, invece, a carico del garante che intenda sottrarsi al pagamento l’onere di dimostrare – attraverso una prova pronta e liquida – la nullità del contratto garantito o l’illiceità della sua causa.

Nel caso di specie, quindi, non potevano essere proposte le eccezioni oggetto del presente giudizio da parte del fideiussore, non avendo provato né dedotto che il debitore principale o lo stesso avesse adempiuto.

Dunque, il Giudice ha dedotto la palese infondatezza del motivo di opposizione, essendo stato emesso il decreto ingiuntivo a seguito del deposito delle certificazioni ai sensi dell’art. 50 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (estratto conto) e di contratto di fideiussione avente data certa, ovvero il 3.8.2005, e regolarmente sottoscritto dall’opponente fideiussore.

A fronte dell’assolvimento dell’onere della prova da parte della banca creditrice, spettava al debitore provare l’adempimento delle obbligazioni, ovvero contestare specificatamente che gli interessi passivi non fossero stati correttamente conteggiati e che alcune rimesse in favore della banca non fossero state inserite nell’estratto conto.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il Tribunale ha rigettato l’opposizione, ha dichiarato l’esecutività del decreto ingiuntivo opposto e ha condannato parte attrice al pagamento delle spese di lite.